Operatori, Servizi, Formazione

Operatori, Servizi, Formazione

ferdinando schiavoMedici di famigliaÈ una lettera aperta ai cittadini e rivolta anche ai miei colleghi di lavoro di ogni ordine e grado* coinvolti nel vasto campo della Salute delle persone anziane.
*Intendo, a scanso di equivoci: medici, farmacisti, infermieri professionali, psicologi, fisioterapisti, logoterapisti, assistenti sociali, animatori, educatori e OSS.
L’appello in origine riguardava il mondo biologico e sociale degli anziani, la fragilità, la complessità, le demenze, i parkinsonismi, la medicina di genere e le “malattie da farmaci”, alla giusta distanza dalla pesante zavorra dei pregiudizi, della facile banalizzazione e dei luoghi comuni. Ma settembre é il mese dedicato alle demenze – questo numero di perlungavita è dedicato al tema – e pertanto lo scritto si rivolgerà esclusivamente a queste tematiche variegate che invadono con il loro carico doloroso il corso della vita al suo epilogo. A volte anche prima.

Nell’ultimo numero del Giornale della Previdenza dei medici e degli odontoiatri nazionale compare questo risultato di un sondaggio in cui risulta che i colleghi medici di famiglia hanno ricevuto un pieno di fiducia nell’ordine del 77,5 per cento.
Ci sarebbe da discutere tirando in campo diversi altri sondaggi sul rapporto bidirezionale medici-pazienti che sono stati effettuati da Altroconsumo nel 2019   e Altroconsumo nel 2017.
Il risultato, accolto con parole di consenso, seppure appartenga a un ruolo in cui si dovrebbe tendere alla “quasi perfezione” poiché è un ballo la vita, mi ha trasmesso numerosi dubbi, sinceri, personali e profondi: mi sono chiesto se, occupandomi in prevalenza di fragilità, demenze e parkinsonismi, io sia diventato un malevolo prevenuto a causa dei tanti episodi di malasanità o di scarsa attenzione a cui ho assistito, se mi sia montato la testa assumendo il ruolo di Santo Salvatore della pelle altrui, se abbia subìto una deviazione mentale possedendo una visione distorta della realtà sanitaria semplicemente perché oramai incontro soprattutto storie complesse che (forse! non essendo io un esperto di sondaggi e statistiche!) rappresentano le vittime, appunto, di quel 22,5 per cento di medici di famiglia che per qualche ragione non riceve la fiducia dei cittadini.
Da qualche parte in questo sito avevo scritto che mi erano giunti messaggi inquietanti in questi anni recenti pre-Covid, messaggi che riguardano i medici (e, direi, meno spesso gli altri professionisti della Salute elencati sopra) circa l’utilità di organizzare eventi formativi sul tema dell’invecchiamento della popolazione, della fragilità, delle “malattie da farmaci”, della medicina di genere e, infine, del terrirorio complesso delle demenze e dei parkinsonismi.
Mi ha molto allarmato l’assenza dei medici (dell’organico di residenze per anziani e non) agli eventi informativi organizzati persino nel loro stesso luogo di lavoro o nella città di residenza. Credo e temo, per esperienza, che per loro “le cose che non si sanno sugli anziani e sulle demenze non esistono”: per tale motivo li torno ad invitare, attraverso voi cittadini, a leggere con umiltà e impegno queste pagine. Segnalo, ancora, che in qualche caso il disinteresse dei medici di una struttura residenziale per anziani (o dei MMG afferenti del territorio) ha persino determinato la mancata organizzazione dell’evento fortemente voluto dalle altre figure professionali “che desideravano sapere”...

Oggi, quindi, desidero limitarmi al campo in continua espansione (le più recenti previsioni parlano di circa 155 milioni di persone con demenza nel 2050), già per suo conto vasto e confuso, delle demenze. Lo faccio inviando un appello ai cittadini, ai familiari di persone con demenza, ai malati stessi e, infine, ai professionisti “non-medici”, attraverso un suggerimento che può sembrare polemico e imbarazzante ma che tenta invece di essere del tutto costruttivo, almeno nelle mie intenzioni: fate domande specifiche ai medici con cui collaborate in ospedale, in casa di riposo e ovunque nel territorio, domande su alcuni temi che riguardanole demenze (e la fragilità, i parkinsonismi e tutto il resto che fa da “contorno” sanitario e sociale e di cui è necessario prendersi cura perché influiscono sul decorso).
Insomma, come può accadere in tutte le professioni, anche i medici sbagliano: diagnosi, terapia farmacologica e non, approccio, tempistica e tempo da dedicare, informazione, comunicazione.
Eppure dagli errori si impara!

Sbagliare è umano
Dopo questo preambolo, elenco queste 30 domande che potreste proporre ai medici di famiglia e agli specialisti vari:
1. Conoscono il significato del termine AGEISMO, ovvero il pregiudizio, il “razzismo”, basato sull’età? Applicano un comportamento di tal fatta nei riguardi dei vostri anziani?
2. Usano ancora il termine “demenza senile”, anche se in ambito scientifico tale patologia da qualche decennio non sussiste più?
3. Sanno che esistono altre demenze oltre quella di Alzheimer?
4. Sono in grado di raccontare come esordiscono – gli inizi sono spesso torbidi e variegati in molti casi - i quadri principali di demenze extra-Alzheimer, in considerazione del fatto che queste “altre demenze” iniziano ed evolvono con sintomi diversi da quelli classici amnesici per i fatti recenti?
5. Sanno che la stessa demenza di Alzheimer può presentarsi in alcuni casi in modo diverso rispetto ai classici sintomi amnesici per i fatti recenti?
6. A tal proposito, sanno che le demenze (e i parkinsonismi) possono colpire persone “giovani” e che è proprio in casi giovanili che gli esordi possono essere differenti rispetto ai classici sintomi amnesici per i fatti recenti?
Letture consigliate (Gli artioli citati e linkati anche in seguito sono tutti pubblicati su Perlungavita.it )
(a)
Sembrava mobbing. Quando le demenze arrivano in età lavorativa
(b)
La vita di Wendy Mitchell, 63 anni, con demenza giovanile: abita da sola, viaggia, attiva nella associazione "Minds and Voices".
(c)
Storie di corpi… di Lewy. Robin Williams, malato a sua insaputa…

7. Sanno eseguire e anche interpretare correttamente i test cognitivi brevi, come ad esempio MMSE (MiniMental) e test dell’orologio?
8. Sanno che questi test, soprattutto il primo, “possono mentire”? Che il MiniMental con un punteggio di 29\30 può nascondere persino un quadro serio di demenza SE quel punto perso è la copia dei pentagoni?

Mni mental mente

 9. Sanno riconoscere un paziente apatico “puro”?
10. … che l’apatia è il sintomo comportamentale più frequente nelle demenze (tutte)?
11. … che può essere un sintomo di esordio (vogliamo chiamarlo elegantemente pre-clinico?) di demenza?
12. … che in genere peggiora con un trattamento farmacologico antidepressivo?
Lettura consigliata:
Una depressione che peggiora con gli antidepressivi

13. Sanno che anche la depressione può essere –
anche lei - un sintomo di esordio (vogliamo chiamarlo, appunto, pre-clinico?) di demenza o di malattia di Parkinson e di alcuni parkinsonismi?
14. Sanno che esiste anche un esordio di demenza con psicosi oppure con inattesi sintomi “vegetativi”?
Sintomi cognitivi

15. Per contrastare certi disturbi comportamentali (agitazione, aggressività…) usano in primis gli psicofarmaci oppure tentano di interpretare e comprendere cosa li innesca a livello fisico o psichico provvedendo a limitarli inizialmente con strategie che non prevedono psicofarmaci?
16. Conoscono la temibile e mal interpretata acatisia da farmaci?
Lettura consigliata:
Una storia di ordinaria acatisia

17. … e le altre manifestazioni extrapiramidali da farmaci (parkinsonismo, distonia, sindrome della Torre di Pisa ecc.) causati dal blocco dei recettori della dopamina (effetto anti-dopaminergico)?
18. Per l’appunto, conoscono i farmaci che possono favorirle, provocarle? Anche quegli psicofarmaci con nomi persino accattivanti, come Levopraid, Mutabon Mite, Deanxit, Dominans, ecc. o quelli apparentemente innocenti come Plasil, Difmetré, ecc.?
19. Se valutano una persona con sintomi parkinsoniani, si chiedono se è veramente malattia di Parkinson o se si tratta di un Parkinsonismo, in cui spesso la terapia dopaminergica dà più eventi avversi che miglioramenti motori?
20. Conoscono il sottovalutato DELIRIUM?
21. … e la percentuale di persone affette da DELIRIUM in un qualsiasi ospedale del mondo occidentale? (Risposta: quasi il 25 %!!!)
22. … e le condizioni e i farmaci che possono scatenarlo?
23. Conoscono in particolare i farmaci anticolinergici (anti-acetilcolina = anti-memoria e tanto altro ancora!) tra cui Akineton, Artane, Tremaril ecc. potenti e oramai poco usati (ma non sempre!), nonché altri, invece, di impiego più comune come le Mine Vaganti Buscopan, Lexil, Spamomen, Laroxyl, Paroxetina ecc. (in un elenco che comprende circa 600 molecole, tutte da studiare…)?
24. Consigliano due (o anche tre!) farmaci da iniziare contemporaneamente? Hanno riflettuto sul fatto che, se uno dei due o tre provoca un effetto avverso, come faranno a capire qual è il responsabile? Li sospenderanno tutti e due o tre, anche quelli innocenti e magari utili? E il Buon Senso? E la Pazienza, ovvero cominciare con uno e qualche giorno dopo aggiungere l’altro?
25. Possiedono quella dote di curiosità clinica (intelligenza, umanità) che li porta a interrogarsi se QUELLA Persona malata che vedono per la prima volta: “è così per evoluzione naturale della malattia o per effetto di farmaci inappropriati o per altri motivi come ematoma cerebrale post-traumatico, iposodiemia, anemia, scompenso cardiaco cronico ecc.”?
Lettura consigliata:
Mummificata da una diagnosi sbagliata


26. … e, nel caso di eventi a cascata oppure evoluti in circolo vizioso, sanno ripercorrere il tragitto che li ha condotti in quello stato e porvi qualche rimedio?
Eventi a cascata in delirium

 27. Conoscono i farmaci che possono allungare il QT cardiaco e provocare la morte, in particolare se si tratta di persona di genere femminile?
28. Hanno idea di cosa sia la FRAGILITA’ e sanno destreggiarsi nella COMPLESSITA’ clinica della condizione geriatrica che spesso fa da contorno ad un quadro di demenza?
29. Effettuano valutazioni ripetute in pazienti anziani, controllando idratazione, alimentazione, alvo, addome, cuore, facendo una sistematica periodica REVISIONE della terapia farmacologica?
30. Si consultano con voi familiari? Ascoltano anche quelle figure professionali di prima linea anche pur ritenendolel’ultima ruota del carro? Lettura consigliata
I miei splendidi ex allievi OSS


In questo momento storico del pianeta, le vicende intrecciate di vite umane che si spengono ancora a causa del Covid, il muro costruito da convinti e violenti NO-VAX, quell’altro che si è innalzato attraverso l’eccesso di burocrazia, l’invecchiamento della popolazione congiunto alla scarsa la attenzione verso le persone vulnerabili, quasi sempre gli anziani, si annodano con difetti già presenti da tempo:

Lettura consigliata
Perché i medici non toccano più i pazienti? Riflessioni all’epoca del coronavirus e della giusta distanza

Tentiamo, tutti assieme di cominciare a “toccarci”, a costruire, ma non solo a parole! un legame di reciproco rispetto fra noi medici e i cittadini.

 

!Sabrina PoggiGli anziani sono un tesoro da custodire, perché sono coloro che ci tramandano i valori ed i ricordi. Pensiamo per lo più alle persone anziane come ad individui fragili, scarsamente tolleranti ai cambiamenti. Vari studi, tuttavia, dimostrano che sono molto più stabili dal punto di vista emotivo rispetto alle generazioni più giovani. Avete mai pensato che l’emergenza in atto potesse far emergere anche qualche aspetto positivo, parlando di Terza Età?!
In RSA questi anziani ci sorprendono in ogni momento! Ci hanno dimostrato la loro straordinaria adattabilità, anche e soprattutto ora, con l’emergenza CoVid-19. La mancanza dei loro cari si sente in ogni momento, ma si sono da sempre dimostrati consapevoli della situazione, e, superato lo smarrimento iniziale, hanno affrontato con coraggio e tanta voglia di vivere questi mesi difficili.
In Struttura sono state mantenute, con loro immenso piacere, attività che permettessero loro di rimanere attivi. Musica, balli, canti…Ma non solo! Chi ha i capelli tinti di bianco ha imparato anche a conoscere le nuove tecnologie: Whatsapp e Skype, per dialogare con i parenti a casa superando così in maniera virtuale le distanze imposte dalle direttive sanitarie anti-contagio, telefoni e tablet, per inviare/ricevere foto e video.
Come avrete capito, a noi piace vedere e tentare di mostrare il bicchiere mezzo pieno. Vi scriviamo dalla nostra “isola felice”, Villa Serena, stavolta presentandovi i pensieri anche di chi sta “dall’altra parte”. Non sempre e solo noi caregiver, facciamo parlare un po' chi è l’”oggetto” della cura!
Vi proponiamo, perciò, anche la visione di un nostro ospite e veterano, il signor Enrico, super-73enne, che collabora con noi educatori in un sacco di attività (Giornalino di Struttura, giornalino –ormai a distanza, purtroppo- con le classi quinte delle scuole qui accanto, tastierista per gli incontri di musicoterapia, e chi più ne ha più ne metta…!), che si è sentito di dire la sua sull’argomento:


Vecchi Sabrina"Il vecchietto dove lo metto" cantava lustri fa Domenico Modugno. Ci si scherzava sopra, ma ora con questo "Corona", che ti dicono prediliga soprattutto quelli dai 70 anni in su, specie se non son delle rocce, non c'è più voglia di farlo! Anche se – essendo io nel comparto – mi rendo conto che il comune sentire, in questi tristi giorni, possa non essere edificante per i nonni, specie se un po' malandati. Ma attenzione, perché i tempi non sono più quelli di una volta!
Oggi i vecchietti sventano le truffe e fanno arrestare i balordi, si cimentano con quello che la tecnologia mette loro a disposizione… la figura dell'anziano "sospettoso" che osserva strani oggetti illuminati e pieni di colore come i computers, sembra ormai essere in netta diminuzione…
Il che smentisce intanto uno dei più diffusi stereotipi di noi senior, quello di una minore capacità di far fronte ai cambiamenti. L'uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare! Qui gli anziani pensano al futuro! In una struttura, dove parrebbe non ci siano aspettative, quelli che per fortuna stanno bene, e hanno la capacità di relazionarsi, non si lasciano sfuggire l'opportunità di nuove idee e proposte diverse per nuove attività.
Finalmente l'anziano non si sente escluso, ma connesso con il mondo, anche se per il momento, a distanza. Senza mai dimenticare i quattro amici del bar, ovviamente!
Ricordate anche che in RSA si vive meno quel senso di abbandono che colpisce chi vive solo a casa, forzatamente lontano dai suoi familiari, a causa delle restrizioni attuali…
Ci teniamo impegnati, insomma, e resistiamo!!
Da Enrico per ora è tutto…restate connessi…e alla prossima!!!

Che dire: “Casa” sì… “di Riposo” decisamente no!
Cari “nonni”, patrimonio dell’umanità, noi vi diciamo GRAZIE!
Grazie ad una generazione contraddistinta da esperienza, comprensione, pazienza, resilienza, rispetto, in grado di conservare tutto questo fino a qui. Silenziosamente, umilmente, ma non per questo con meno forza.
In questi tempi difficili, avete dato ancora una volta un insegnamento di vita a tutti noi, che non pensiamo a quanto siete stati limitati da questo nemico invisibile, che ci lamentiamo solo per la mancanza di un aperitivo, che abbiamo mille risorse per impiegare il nostro tempo libero, ma ci lamentiamo lo stesso, che non sopportiamo la benché minima limitazione a tutto ciò che in realtà è superfluo…a tutti noi, che, insomma, non abbiamo proprio niente da insegnarvi, ma solamente tutto da imparare!

Enrico Secchi 
ovvero
"Lei non sa chi sono io!"

Nella mia vita, tutto avrei immaginato, tranne che si volesse sapere qualcosa su di me.
Enrico Secchi… un nome, una garanzia!
Sono nato a Milano, addì 25 ottobre 1947, alle 5 del mattino. E pare fosse un sabato.
Passati gli anni, un giorno, leggendo una copia del Corriere della Sera di quell'ormai lontano 25 ottobre, scoprii, per caso, che, proprio quel giorno, veniva firmata la Costituente! 
Ne fui compiaciuto, e mi sentii come se una botta di energia positiva salisse in superficie da dentro.
“Enrico”, dall'antico tedesco, significa “possente in Patria!” ed io mi sentii tale.
Sfoglio spesso l'album dei ricordi di famiglia, e devo dire che, guardando le fotografie da bambino, ero veramente un bel pacioccone. Fronte alta, espressione imbronciata, sembrava che avessi già ben chiare tutte le caratteristiche tipiche dei nati sotto il segno dello scorpione: “Scrutare nel profondo, e scavare, scavare sino a trovare chissà quale tesoro! Ricordo che nell'ufficio dove lavoravo (un'importante azienda della Grande distribuzione), i miei colleghi avevano messo in bella mostra, una mia foto a otto mesi.
Attratto irresistibilmente dalla musica, senza saper né leggere né scrivere, riconoscevo i dischi dal colore dell'etichetta, e il radiogrammofono era il mio compagno di giochi più fedele.
La mia è stata una famiglia meravigliosa.
Mia madre, una donna coraggiosa e fantastica, non si è mai arresa davanti a niente! Mi ha portato in braccio sino ai sette anni E anche quando i medici le dissero che a 13 anni sarei stato costretto su una sedia a rotelle, non si fece prendere dallo sconforto, ma mi portò da tutti i luminari della medicina dell'epoca. Quando i medici le dicevano di portarmi al mare, mi portava in montagna, e quando sarei dovuto andare in montagna, la mia mamma mi portava al mare!!! Ho avuto un'infanzia e una fanciullezza felici.
EnricoCon un padre appassionato di musica lirica, ho avuto anche una discreta educazione musicale, e il mio strumento preferito in assoluto è il pianoforte. Ho potuto studiarlo non senza problemi e con diverse insegnanti che porto nel cuore. Ho un talento musicale innato che avrei potuto approfondire studiando un po' di più… purtroppo però, mi sono arenato.
Dal marzo del 2002, vivo a Salice Terme e la mia nuova famiglia, è a Villa Serena, una casa di riposo per anziani, in cui ho fatto recapitare il mio pianoforte, al quale mi lega un rapporto affettivo, essendo stato un bel regalo di mia madre.
Ogni mercoledì facciamo quattro passi tra le note, e con la mia musica, cerco di allietare gli ospiti che hanno voglia di cantare. La mia prima fan indiscussa, è Luciana. Ci siamo incontrati qui, e siamo diventati una coppia, come gli innamorati di Peinet!    
Bello come il sole fino ai 25 anni, con un sorriso a trentadue denti, mi sono rovinato crescendo! Tanto che oggi, all'età di 73 anni compiuti, porto la dentiera e nelle foto sembro invecchiato anzitempo!
Grazie alla collaborazione con le educatrici della struttura che mi ospita, Sabrina e Alida, ho dato vita al “Giornalino di Enrico” ed essendo un creativo, collaboro anche con le maestre di V elementare, della scuola antistante Villa Serena. Le maestre si ricordano di me anche a distanza di tempo, e i miei bambini, mi fanno sentire un giovane nonno.
Mi tengo impegnato con mille piccoli grandi impegni e cerco di rendermi utile un po' dappertutto come posso…è questo il segreto per restare sempre giovani e per una vita “Serena”, proprio come la RSA in cui vivo!!!

Ha collaborato alla stesura  Alida Nikaj, l'altra educatrice di "Villa Serena"

CASA SALCE
uno dei centri di servizi dell’ISRAA di Treviso, sorge all’interno delle mura del centro storico e offre alle persone anziane una residenzialità in grado di garantire risposte specifiche ai diversi bisogni che possono caratterizzare le varie fasi dell’invecchiamento. Nell’area limitrofa alla residenza sorgono anche gli edifici che accolgono la recente esperienza di senior cohousing. (1)
Nelle foto: La facciata di Casa Salce, il Borgo Mazzini smart cohousing, vista da una camera di Casa Salce

Facciata Casa SalceGiardino BMSC Vista da Casa salce

 

laura lionettiATTREZZARSI PER COMBATTERE IL CONTAGIO, SOSTENERE RESIDENTI, FAMIGLIARI E PERSONALE
Laura Lionetti

Quando da covid free si diventa covid full cambia tutto. Quello che al pensare era inimagginabile, in un attimo diventa la realtà.Quello che avevi ascoltato, visto e letto delle esperienze degli altri diventa la tua esperienza.
E inizia un viaggio faticoso, travolgente, drammatico, che porta all’essenza del lavoro di cura e delle relazioni.

Attrezzare un’ala covid, fare i trasferimenti, comunicare ai familiari, lavorare bardati come palombari, applicare protocolli e procedure, fare errori e imparare dagli errori, riorganizzare e riorganizzarsi continuamente, restare con il fiato sospeso ogni settimana facendo i tamponi, piangere, fare video chiamate, stravolgere la vita degli anziani...

Le priorità:

  • contenere la diffusione del virus
  • sostenere i residenti
  • sostenere i familiari
  • sostenere il personale

 È dura perché da una progettualità in cui si lavorava sulla qualità dell’assistenza e sul sostenere i desideri, dare vita ai sogni, creare anche qualcosa di speciale, si passa ad una realtà in cui dobbiamo limitare, contenere, distanziare.
È un’esperienza che richiede un cambiamento del modo di pensare, un arrendersi al fatto che quello che c’era prima non c’è più e il futuro sarà diverso dal prima, come nelle discipline orientali un cedere per poter fare la mossa migliore.
E mentre attraversiamo questa esperienza scopriamo nuove potenzialità, dei residenti, degli anziani, dei familiari.
Il “buongiorno vecchie” dell’assistente sociale, appuntamento fisso per salutare e sostenere le residenti in isolamento; le signore dell’igiene ambientale che lasciano post- it di incoraggiamento nelle camere; residenti che devono essere trasferiti dal loro mondo ad un posto che sembra un ospedale e spesso sorprendendoci riescono ad ambientarsi; la morte veloce e ravvicinata di chi abbiamo seguito per anni, l’esperienza degli OSS di essere i “prossimi” al morente in assenza dei familiari; OSS che saltano riposi e non si tirano indietro, infermieri che fanno doppi turni, familiari che oltre a chiedere notizie del loro caro si preoccupano del personale, anziani che attraversano il covid e tornano nelle ore stanze di autosufficienti, anziani che restano compromessi …
E quello che era ostacolo e ricerca, diventa esperienza grazie all’emergenza.
La comprensione della complessità di casa albergo, l’integrazione tra le tutte le figure professionali, un senso condiviso di ricerca di cosa serve alla persona … bere mangiare essere alzati … ma anche una piccola passeggiata accompagnati in giardino, il condividere con i familiari l’invio delle merendine preferite ...
Cosa vorrei restasse di questa esperienza:
la Flessibilità,
la ricerca e la consapevolezza delle Azioni di valore,
la Narrazione di una quotidianità straordinaria,
il Radicamento che può dare la grandezza dell’esperienza umana.

gioia martignagoLETTERA ALLA SQUADRA
Gioia Martignago

Penso a questi mesi e alle cose che ci siamo dette ieri, e arrivano tanti pensieri.
Vorrei raccontarvi come è cambiato il mio lavoro, con il Covid
Perché senza che me ne accorgessi è cambiato tutto, un pezzettino al giorno, e solo guardandolo adesso, dopo un po’, mi rendo conto che è diventata la nuova normalità, è già un automatismo.

Non stringo più la mano.
Non stringo più la mano da quasi sei mesi, a nessuno: a chi chiede informazioni, a chi viene a fare la domanda, ai familiari. 
Non stringo più mani. Non mi presento più così.

Per me è una cosa rivoluzionaria perché è sempre stato il primo contatto, la primissima presentazione con le centinaia di persone che ho incontrato in questi anni.
Seguo dei tempi tutti nuovi, tempi dei tamponi, degli esiti, della quarantena. Ne parlo ai familiari dei nuovi ingressi con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E loro lo accettano. Dicono “certo, certo”.
Dico loro che quando ci portano la mamma per 15 giorni non la vedranno. E loro capiscono, un po’ si preoccupano. Ma ti dicono “Certo, certo”. È tutto normale. Le prime volte mi vergognavo un po’ a dirlo, lo facevo con imbarazzo. Ci ho messo tempo a capire che la mia reazione era normale: ma come, per 5 anni ho invitato i familiari a vedere la sede, a venire a trovarli in camera, ad essere presenti specie i primi giorni. E adesso gli dico l’esatto opposto. State lontani. Non venite. Fidatevi Gioiache facciamo noi. Prima gli dicevo che appena entrati avrebbero conosciuto ognuno di voi. Adesso gli racconto i vostri visi e le vostre professionalità attraverso una cornetta. Vedrete che ci conosceremo prima o poi, ci berremo un caffè assieme. Loro rispondono “Certo, certo”. Si fidano. Non obiettano. Mi chiedo quanta fiducia abbia potuto costruire in un colloquio fatto un anno fa quando hanno presentato la domanda. Se sia sufficiente a sostenere tutti i dubbi che avranno nel prossimo periodo. Certo che no, non basta. Persino alla scenetta di visita alla stanza ho dovuto rinunciare, uno dei momenti che preferisco, dove illustro i pregi e i pochissimi difetti della camera, dove gli garantisco che mamma o papà staranno bene con noi. E lo dico perché ci credo, non per vendere. Se fosse solo per quello sarebbe tutto molto diverso. Adesso la camera la vedono in videochiamata su whatsapp. 5 minuti puliti puliti, ci metto 1/5 del tempo. Ma mi diverto molto meno. Se sono diminuiti i contatti di persona però sono aumentate le telefonate. Continue. Per qualunque cosa. Con toni e ansie più o meno diversi.
E allora ditemi, cosa c’è di normale in tutto questo? Cosa rimanere, per me, del mio lavoro? Mi sono risposta che ne rimane l’essenza, il senso. Ma non la normalità. Quella scusatemi, ma non c’è.
E allora che liberazione quando settimana scorsa Laura ha detto che “ far convivere covid e normalità è una cazzata”. Personalmente mi sono alleggerita della zavorra degli ultimi sei mesi. Perché non c’è proprio niente di normale. Diciamocelo, non abbiamo paura di dircelo. Perché può solo farci stare meglio ammetterlo. Siamo tutti preoccupati, spaventati, intimoriti, insicuri. Lo siamo nel lavoro e nella vita. È stolto pensare che non sia così, ancora più stolto non riconoscerlo. Io sono 6 mesi che sono preoccupata per i miei genitori, per la mia famiglia, per mia nipote, per i miei amici, per i vecchi (tantissimo), per voi. Lo sono io come lo siete voi. Ognuno ha la sua storia, che non conosciamo, ma c’è e la rispettiamo. Non è normale essere preoccupati per così tanto tempo, essere in apprensione per tanto tempo. Ma è normale esserlo in questo momento, perché questa è la normalità. La normalità dell’ora, dell’adesso. Ieri l’abbiamo detto, siamo rimasti tutti annichiliti vedendo l’esercito portare via le bare di Bergamo.
E allora quale è il senso di questo momento? Cosa facciamo? Ieri non mi ricordo chi ha detto che non sappiamo dove andare, per questo facciamo fatica e che è difficile perché impossibile progettare. Non son d’accordo: credo che dove andare e che progetti fare siano molto chiari. O almeno questa è la riflessione e la motivazione che ha mosso me da marzo ad oggi: i vecchi. Ma i vecchi nel senso più profondo. Riprogettare e rendere straordinario quello che è la mission dell’ISRAA che è talmente radicata (per fortuna) che non ce la siamo neanche detti. Per citare la signora Adriana una cosa dobbiamo fare: custodirli. Tenerli al riparo, proteggerli. Concentrare tutte le nostre energie su di loro, ognuno con la propria competenza. Questo dobbiamo fare. Tutto quello che arriva in più è grasso che cola, ma è un in più. Arriva solo se abbiamo un eccesso di energie, non può essere la norma. E allora così anche 350 tamponi una volta al mese hanno un senso, hanno un senso le visite con il plexiglas, le limitazioni. Certo, tutto questo è banale. Ma ce lo siamo mai detto, ci siamo mai detti che tutte le nostre azioni quotidiane sono volte a questo? A custodirli? Credo di no, abbiamo cercato di inserire a forza il vecchio e il nuovo, di farlo coesistere. Ma adesso non possono farlo, non è ancora possibile che la vecchia vita e la nuova vita sopravvivano assieme: se c’è una, difficilmente può esserci l’altra. E attenzione: credo fermamente che tutto quello che abbiamo fatto finora fosse volto esclusivamente a custodire gli anziani. Ma forse, come ci è capitato spesso, ci siamo dimenticati di dirlo a voci alte. E, soprattutto, di riconoscerlo.
E di riconoscercelo a vicenda.
Sempre grata di lavorare con ognuno di voi.
In questo 2020, ancora di più.

sara pollonOTTOBRE DUEMILAVENTI
Sara Pollon

Venerdì̀ pomeriggio, inizia a calare il sole. L’ora è già̀ quella solare.
La decisione è stata presa.
Per i quindici giorni necessari ad arginare la diffusione del virus, Annamaria trascorrerà̀ le sue giornate dal quinto piano di Casa Albergo, l’ultimo quello da cui si padroneggiano i tetti della città, al secondo.

Lì è stata allestita l’area rossa. La coordinatrice e la psicologa l’hanno già̀ avvisata. 
“È per il suo bene, sarà̀ solo per un periodo, vedrà̀ che si troverà bene.”
Accetta di buon grado Annamaria, si lascia guidare da subito da queste due figure che ben conosce.
Lasciare la propria camera, per trasferirsi dove ci sarà più assistenza, non è facile.
Ma Annamaria si fida.
Fuori dalla sua porta c’è il tavolino con alcool, guanti, camici, è il segnale che in quella camera c’è una residente positiva al Covid diciannove.
Busso, con me ho un carrello per trasportare gli oggetti utili e una scorta di gentilezza che so essere indispensabile.
Annamaria, sorridente mi accoglie, non faccio a tempo a pronunciare una parola,
è lei ad esortarmi.
“Sei qui per portarmi giù?”
Iniziamo dal comodino, troppi oggetti, decidiamo di portarlo via tutto intero. Lampada compresa. Poi andiamo con ordine, vestiti, giusto per i prossimi giorni, pigiama, ciabatte.
Raccogliamo gli indispensabili: cellulare, carica batteria, dentiera, occhiali, rubrica...
Carichiamo tutto sul carretto che comincia ad essere bello pieno.
È solo lo stretto necessario, il resto si vedrà...
Siamo pronte. C’è tutto. Ci siamo lei ed io.
Uno sguardo alla camera, s’impugna il deambulatore, un giro di chiave e via all’ascensore.
“Ma sono l’unica ad andare al secondo piano?”
Il tempo di dieci passi, lenti, da novantaseienne e arriva la domanda.
“No, con lei ci saranno altre tre persone”
Entriamo in ascensore e si percepisce la concentrazione nel rielaborare la risposta appena ricevuta.
Non c’è paura nel volto di Annamaria, c’è quasi una sorta di curiosità. È come se stessimo vivendo un’avventura.
Non sappiamo a cosa andremo incontro, è il caso di dirlo, ma in un qual modo ci fidiamo l’una dell’altra.
I dettagli sono importanti penso, mentre il consueto scampanellio ci fa intendere che l’ascensore è arrivato a destinazione.
“Vi ho rifatto il letto a tutte e quattro con il copriletto rosa, spero le piaccia!”
Annamaria mi sorride compiaciuta, ha intuito il mio impegno nel rendere questo cambiamento un po’ più soffice.
Nel corridoio che conduce alla nuova stanza iniziamo ad incontrare le operatrici socio sanitarie, l’infermiera. Visi sconosciuti coperti dalla mascherina e dalla visiera, corpi imbacuccati in un camice che lascia scoperti solo i piedi.
Annamaria saluta con la cortesia che la contraddistingue e non si lascia intimidire. Si lascia guidare fino al varco della sua camera.
“Dato che è la prima ad arrivare, qual letto vuole scegliere? Lato finestra o lato interno?” “Preferisco verso la finestra”. E sia.
Rimettiamo a posto il comodino, i vestiti sulla sedia, il cellulare in carica e in cuor mio ripongo la consapevolezza che il primo passo è stato fatto.
Arrivano poi Vanda, nel letto affianco e nella camera adiacente anche Bertilla e Cesarina. Fuori ormai è buio da un pezzo, è ora di cena.
Annamaria si accomoda, io saluto. Ci rivedremo lunedì.

Lunedì: qualche voce mi era già arrivata durante il weekend.
Pare che ad Annamaria tutta questa faccenda del trasloco, non sia piaciuta più di tanto. Pare, ma in realtà Annamaria è proprio incazzata.
Mi ritrovo di nuovo di fronte alla sua porta.
Busso, nessuna risposta. Busso forte, silenzio.
Man mano mi avvicino al letto, mi paleso, accenno ad un “buongiorno” carico di energia. Annamaria ricambia: nel giro di due minuti, distesa a letto, sotto le coperte, rivela tutta la sua rabbia, la sua preoccupazione, la frustrazione di ritrovarsi in un posto che non riconosce, in cui non vuole stare e dove tutto va a rotoli.
C’era da aspettarselo penso. E adesso che diamine le dico?
Niente.
Mi siedo vicino al letto e lascio che Annamaria esprima tutta la sua angoscia.
L’ascolto, la osservo, annuisco, senza proferire parola. Penso ad un canale diverso per riuscire ad entrare in comunicazione. Quando lei lo vorrà.
Dopo un po’ arriva la chiave giusta. Esprime disagio per un oggetto di cui ha bisogno e non ha. Mi adopero per portarglielo, le faccio capire che ci sono, che sono lì per lei.
Le propongo di alzarsi dal letto, accetta. Anzi, lei non si sente mica niente.
Non capisce proprio perché è finita lì, non ha sintomi e si sente in forze.
Ci vestiamo, rifacciamo il letto, il sottofondo non è cambiato. Ma ci mettiamo in moto.
Per tutta la mattina sono stata accanto a lei, abbiamo camminato per il corridoio, telefonato a suo figlio, bevuto il caffè, osservando fuori dalla finestra un inedito panorama.
Il suo sguardo, tagliente, pian piano si ammorbidisce.
Annamaria riesce a mettere in parole la sua rabbia.
È preoccupata, non si riconosce. Tenta di apprezzare gli accorgimenti che le sono stati rivolti in questi due giorni, ma è faticoso. Si guarda intorno con circospezione.
Passata la mattinata, pare essere più tranquilla.
Di poco, ma è quel che basta per aprire uno spiraglio positivo su questa esperienza che di certo ci segnerà.
I giorni seguenti vanno meglio, Annamaria prende maggiore confidenza con l’ambiente, inizia a conoscere tutti gli operatori e le infermiere che lavorano al piano. Si concede qualche momento di serenità, passando a salutare le altre persone che sono lì con lei, legge il giornale, cammina a lungo e trascorre lunghi minuti al telefono con i figli e con le tante altre persone che conosce.
Una mattina le faccio una bella manicure, che la fa sentire a posto e le consente di raccontare gli episodi belli della sua vita.
Cominciano ad avvicinarsi i giorni che mancano al termine della permanenza nella zona rossa, se il test darà l’esito sperato, Annamaria potrà ritornare a godere della vista dei tetti di Treviso.
E quella prospettiva l’aspetta.
Ce l’ha fatta con la sua tenacia, è riuscita a sconfiggere il virus e a riprendere il suo posto.
Spetta nuovamente alla coordinatrice annunciare la notizia, questa volta è quella buona. Annamaria fa letteralmente un salto e spontaneamente abbraccia Lucia, che è avvolta nella ormai consueta divisa monouso.
La notizia non fa a tempo ad essere comunicata che già corre per i corridoi del secondo piano. Siamo tutti contenti per Annamaria, ma ci dispiacerà non vederla più passeggiare.
Durante queste tre settimane si è fatta conoscere per quello che è, una donna forte, che sa il fatto suo e non teme di affermarlo. Una donna anziana, che riconosce il valore di ogni giorno e che ci insegna a non accontentarci, anzi a vivere appieno.
È sempre venerdì ma stavolta si ripercorrerà il percorso al contrario.
“Sono qui per esaudire ogni suo desiderio” dico con voce squillante ed emozionata.
In un battibaleno il carretto è ancora una volta colmo.
Dopo pranzo, Annamaria si corica un po’ e poi via, si parte.
Saluta e ringrazia tutte le persone che incontra, si è trovata bene afferma, ma spera di ritornare solo per una visita, non per rimanerci!
Arrivate davanti alla sua camera, nota che non c’è più la presenza ingombrante del tavolino.
Infilo la chiave nella toppa, lascio a lei l’emozione di aprire la porta ed entrare per prima.
Ci avvolge la felicità di essersi riappropriata della propria libertà. È palpabile nell’aria.
È ora di risistemare tutto com’era prima.
Annamaria sa perfettamente dove vanno tutti gli oggetti.
È il suo ordine, nella sua camera. Io l’aiuto a riporli, valorizzando e rispettando le sue scelte.
Quelli importanti sulla mensola dello specchio, la crema viso la mette dentro un armadietto in un angolo, a quanto pare non è così necessaria. Il rossetto invece è a portata di mano.
Il comodino ritorna affianco al letto, il telefono in carica, il Vangelo e il rosario Annamaria li ripone sopra ad un mobile che ospita già altri oggetti religiosi.
È il suo ordine, nella sua camera.
Ripristinato tutto, ci concediamo un po’ di riposo sedendoci sulle due poltroncine sotto la finestra. Le propongo una videochiamata con la figlia, per annunciarle che tutto è tornato alla normalità. Accetta di buon grado e si gode questo dialogo attraverso uno smartphone che fa sentire mamma e figlia più vicine.
Annamaria è soddisfatta e felice.
Nei suoi occhi è impressa la gioia immensa di respirare di nuovo, aria di casa.

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Borgo Mazzini Smart cohousing -ISRAA

 

ferdinando schiavoConfesso che questo articolo è stato redatto da un professionista della salute che non ha fatto una gran carriera, un individuo forse invidioso e rancoroso. Ecco, ho fatto outing e ora posso proseguire con alcune riflessioni che hanno come filo conduttore la “bravura” di un professionista, del medico in questo caso.
Tema enorme. Mi pare di ricordare che abbia prodotto varie inchieste da parte di riviste come Panorama dei vecchi tempi, coi suoi “i migliori specialisti d’Italia”, ed è stato affrontato negli anni, anche al limite dello spot pubblicitario, da altri settimanali che si occupano di salute e non.
La prima riflessione è vecchia di almeno venti anni, mi è nata dentro andando in pensione (per modo di dire) nel 2000 a 54 anni, poi é cresciuta in modo prepotente e progressivo fino a oggi, a quest’anno: a 75 anni sono diventato un neurologo vecchio.
In sintesi. Ascoltando giovani e vecchi colleghi presentare il loro contributo a convegni di un qualche rilievo mi sono chiesto varie volte: “Ma questo qui come lavora? Parla bene, anche se cita un po’ spesso i lavori scientifici suoi e del suo gruppo; espone quelle odiose diapositive “piene di numeretti”; sembra comunque avere le idee chiare; mi sta insegnando qualcosa. Ma – torna prepotente la domanda - come visita i suoi pazienti?”
Ho fatto delle indagini, ho chiesto notizie a medici, psicologi, fisioterapisti, logoterapisti con cui costoro lavorano, informandomi anche attraverso amici e conoscenti affidabili di città lontane. Così ho scoperto, attraverso qualche risatina commentata dei primi e la testimonianza degli altri, che alcuni dei bravi parlatori praticavano la medicina della fretta. So con certezza che almeno un neurologo pluridecorato esegue la prima visita neurologica per una Persona con malattia di Parkinson in 5-10 minuti. Certamente qualche genio del Parkinson, appunto, o della sclerosi multipla o di qualsiasi patologia neurologica è in grado di fare una diagnosi corretta in minor tempo e meglio di me, di chiedere accertamenti e magari modificare una terapia preesistente o iniziarne una nuova. E può arrivare persino a fornire le informazioni necessarie e pure scrivere una breve ma solida relazione clinica per il medico curante. Ma se una valutazione dura dieci minuti o qualcosa di più, non è in grado di applicare quei sani princìpi che ho riportato nel mio “Malati per forza”.
“Il rapporto fra professionista della salute (medico e non) e paziente è un confronto impari fra uno che sa verso uno che non sa, uno che è forte verso uno che è debole. Una modalità antica, che nello stesso tempo dobbiamo considerare innovativa, ci dice che questo rapporto deve basarsi sull’empatia (so che cosa avverti nell’animo), sulla informazione (hai il diritto di sapere), sulla comunicazione (devo essere in grado di sapertelo dire) e infine sulla professionalità (so che cosa fare a livello tecnico).”
Le doti di umanità non sono evidentemente misurabili e non possono rientrare nelle qualità utili per la valutazione scientifica al fine di un avanzamento nella carriera. Vogliamo accennare anche all’intuito professionale, quello che nasce da doti personali ed esplode se supportato da solide basi di studio, aggiornamenti, curiosità, ascolto, capacità di sintesi? E che carriera hanno quei clinici affidabili, “bravi”, che le posseggono ma pubblicano poco o nulla?
Publish or perish, pubblica o non fai carriera. Un po’ come il tenente Colombo che tenente è rimasto a vita.
Ecco allora che la durata di una visita potrebbe, il condizionale è doveroso, definirsi come l’attributo essenziale per rispondere alla prima riflessione.
E anche alla seconda: “Dottore, mi può consigliare uno che lavora come lei?”
Una domanda che mi hanno posto in tanti già prima, poi durante e dopo l’isolamento da coronavirus, quando la voglia di chiudere con l’impegno clinico era stata pronunciata in una decisione scritta sul mio stesso sito. Imbarazzato, ho cercato in qualche modo di dare una risposta utile alla gente del luogo dove vivo perché “so” come lavora(va)no alcuni miei colleghi con cui ho condiviso decenni di vita ospedaliera, ma ho fatto fatica a rispondere per i miei colleghi “nuovi” di Udine e dintorni e alle richieste che sono pervenute da luoghi più lontani: come posso “garantire” uno specialista con cui non ho mai condiviso esperienze di lavoro?

Giunge a parziale sostegno della mia idea la Carta di Firenze, redatta da alcuni dei principali esperti del settore medico-sanitario e presentata il 14 aprile 2005. Propone una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente. Il paziente ha diritto alla piena e corretta informazione sulla diagnosi e sulle possibili terapie, ma ha anche diritto alla libertà di scelta terapeutica, scelta che deve essere vincolante per il medico. Cosa enuncia?
1 La relazione fra l'operatore sanitario e il paziente deve essere tale da garantire l'autonomia delle scelte della persona.
2 Il rapporto è paritetico; non deve, perciò, essere influenzato dalla disparità di conoscenze (comanda chi detiene il sapere medico, obbedisce chi ne è sprovvisto), ma improntato alla condivisione delle responsabilità e alla libertà di critica.
3 L'alleanza diagnostico/terapeutica si fonda sul riconoscimento delle rispettive competenze e si basa sulla lealtà reciproca, su un'informazione onesta e sul rispetto dei valori della persona.
4 La corretta informazione contribuisce a garantire la relazione, ad assicurarne la continuità ed è elemento indispensabile per l'autonomia delle scelte del paziente.
5 Il tempo dedicato all'informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura.
6 Una corretta informazione esige un linguaggio chiaro e condiviso. Deve, inoltre, essere accessibile, comprensibile, attendibile, accurata, completa, basata sulle prove di efficacia, credibile ed utile (orientata alla decisione). Non deve essere discriminata in base all'età, al sesso, al gruppo etnico, alla religione, nel rispetto delle preferenze del paziente.
7 La chiara comprensione dei benefici e dei rischi (effetti negativi) è essenziale per le scelte del paziente, sia per la prescrizione di farmaci o di altre terapie nella pratica clinica, sia per il suo ingresso in una sperimentazione.
8 La dichiarazione su eventuali conflitti di interesse commerciali o organizzativi deve far parte dell'informazione.
9 L'informazione sulle alternative terapeutiche, sulla disuguaglianza dell'offerta dei servizi e sulle migliori opportunità diagnostiche e terapeutiche è fondamentale e favorisce, nei limiti del possibile, l'esercizio della libera scelta del paziente.
10 Il medico con umanità comunica la diagnosi e la prognosi in maniera completa, nel rispetto delle volontà, dei valori e delle preferenze del paziente.
11 Ogni scelta diagnostica o terapeutica deve essere basata sul consenso consapevole. Solo per la persona incapace la scelta viene espressa anche da chi se ne prende cura.
12 Il medico si impegna a rispettare la libera scelta dell'individuo anche quando questa sia in contrasto con la propria e anche quando ne derivi un obiettivo pregiudizio per la salute, o, perfino, per la vita del paziente. La continuità della relazione viene garantita anche in questa circostanza.
13 Le direttive anticipate che l'individuo esprime sui trattamenti ai quali potrebbe essere sottoposto qualora non fosse più capace di scelte consapevoli, sono vincolanti per il medico.
14 La comunicazione multi-disciplinare tra tutti i professionisti della Sanità è efficace quando fornisce un'informazione coerente ed univoca. I dati clinici e l'informazione relativa alla diagnosi, alla prognosi e alla fase della malattia del paziente devono circolare tra i curanti. Gli stessi criteri si applicano alla sperimentazione clinica.
15 La formazione alla comunicazione e all'informazione deve essere inserita nell'educazione di base e permanente dei professionisti della Sanità.

L’enunciato numero 5 dovrebbe essere stampato in grande in un cartellone gigante in cui si impone la riproduzione di un paziente accigliato che punta il suo minaccioso indice. Andrebbe piazzato davanti all’ufficio del c.d. manager dell’ospedale o di qualsiasi struttura sanitaria che abbia a che fare col pubblico! Risalendo nella scala delle responsabilità, dovrebbe essere esposto in parlamento come monito per i politici che da più di 20 anni hanno tagliato risorse alla sanità, e magari davanti alle sontuose case di quelli che le hanno sperperate e persino intascate (Poggiolini teneva i suoi miliardi nascosti tra le piume delle poltrone!).
Il tempo, quindi. Anche il tempo per misurare la pressione arteriosa ai due lati, almeno una volta nella vita e magari una volta l’anno agli anziani e alle Persone a rischio? Certamente! Per chi ha seguito i miei eccessi clinici è il quarto e ultimo quiz. Era stato proposto insieme agli altri a cui nel frattempo ho risposto su questo sito: https://www.perlungavita.it/argomenti/salute-e-benessere/1434-uno-nessuno-e-centomila-il-ruolo-cosi-e-anche-se-non-vi-pare.

pressione arteriosa

Si riallaccia al tema della durata della visita, del tempo, e possiede un alto ruolo della prevenzione neurovascolare (e generale, direi, in quanto tutto ciò che fa bene al cervello vale anche per il cuore e per il resto del corpo!). Allora, perché misurare almeno una volta nella vita la pressione arteriosa (PA) ai due lati, nella stessa occasione? È chiedere troppo, un piccolo sforzo, se si auscultano eventuali soffi vascolari al collo?
Adesso, un po’ di sana, utile e (spero) comprensibile anatomia funzionale. Il cuore pompa sangue arterioso verso il cervello e il resto del corpo. Dall’arco aortico si dipanano diverse arterie tra cui i tronchi sopraortici (TSA, con qualche variabilità in ciascuno di noi). Nella diapositiva sono estremamente sintetizzati: mancano, ad esempio le due arterie vertebrali, che fanno parte del circolo “posteriore” a destinazione cerebrale.
Arterie

Prendiamo come esempio e punto di riferimento la stellina che ho posto in quell’incrocio che va all’arto superiore destro attraverso l’arteria succlavia. Immaginiamo che quella stellina rappresenti però una placca di vario tipo all’interno e all’origine dell’arteria e che crei un ostacolo parziale al flusso sanguigno (si chiama stenosi, di vario grado e tipologia). Misurando la PA bilateralmente potremmo scoprire che questa evidente barriera meccanica (aggiungiamo che provoca una stenosi del 70%?) si può rivelare attraverso una PA più bassa a destra. Nell’esempio, potremmo evidenziare che a destra la PA corrisponde a 100\55 e a sinistra a 160\90. Volendo, potremmo già accorgerci di una differenza di “potenza” del polso radiale destro. Se si trova il tempo di cercarlo e di apprezzarlo… Il medico si é rovinato la giornata eseguendo una tantum questa misurazione? Certamente no…
Se mette in pratica questa banale prassi e se riscontra una significativa differenza, come quella dell’esempio descritto, potrebbe invece sollecitarvi ad effettuare con una certa urgenza un esame non invasivo che si chiama ECO-Doppler dei tronchi sopraortici (TSA). Poi, sulla base dell’esito, può procedere richiedendo il parere di un chirurgo vascolare per una valutazione e per altri esami (angio-TC o RM, angiografia) in vista di eventuali interventi di tempestiva disostruzione del vaso. E intanto consigliarvi una buona terapia antiaggregante per tenere più “fluido” il sangue.
Che succede se questo piccolo sacrificio, questo breve impegno, espressione di serietà lavorativa del medico, non viene messo in pratica?
Parecchi cittadini non conoscono queste banalissime applicazioni utilissime per la salute, malgrado gli annunci sontuosi dei grandi guru della medicina a livello planetario (OMS compresa) verso un mondo reale che è distante. Il cittadino andrebbe informato semplicemente perché la “stellina” (che a questo punto è diventata una stellona) può ingrandirsi fino a occludere quell’arteria del braccio destro, la succlavia, provocando un’ischemia dell’arto stesso e, per non farsi mancare nulla, invadere anche la vicina origine della carotide destra, occludendola e provocando di conseguenza anche un ictus ischemico cerebrale destro che si manifesta come emiparesi o emiplegia sinistra.
Per darvi un’idea, descrivendo quanto da me già visto nella pratica clinica: arto superiore destro ischemico, pallido, dolorante, destinato a necrosi, gangrena, chiamatela come volete! Non basta. Dall’altro lato c’è una emiparesi o emiplegia per danno ischemico all’emisfero cerebrale destro.
A quel punto, già sulla barella, misurando la PA, cosa troveremmo? A destra magari ZERO (assenza di flusso arterioso) e a sinistra 200\100… e guai a ridurre questi valori! Quel 200\100 sta lavorando per noi, come si scrive nei cantieri, a far da supplente lassù nel cervello a quel che non arriva da destra.
Stellona
I cittadini vanno formati da medici premurosi e competenti, come ha scritto Ippocrate due secoli e mezzo fa, l’ho doverosamente riportato nell’incipit del mio Malati per forza. Il cittadino potrebbe obiettare, come ho già sentito, purtroppo, che devono essere i medici a praticare questo ordinario esame! Non so cosa rispondere, da solo non ho il potere di cambiare le cose. Sono solamente un tenente!

L'emergenza CoVid-19 ha rappresentato un evento catastrofico ed inaspettato cui ognuno di noi ha dovuto far fronte. Un'esperienza surreale, che lascerà per sempre solchi profondi nell'animo di coloro che lo hanno vissuto in prima persona nella sua drammaticità. Il lockdown, l'isolamento, i sentimenti da reprimere...per un attimo, è stato come se tutto si fermasse...
E il dopo? La graduale ripresa, le informazioni incerte, le relazioni che ancora non ripartono...
Ma, se è stato così devastante per noi, come può aver inciso sulla vita delle fasce fragili? Quanto può essere stato deleterio, ad esempio, per le persone affette da demenza?
WhatsApp Image 2020 07 22 at 20.42.31Siamo Alida e Sabrina, educatrici di Villa Serena, RSA dell'Oltrepò Pavese e isola felice no-CoVid, poiché l'incubo non ci ha toccato dall'interno.
Abbiamo lavorato duramente per proteggere la vita dei nostri ospiti, nonché compagni del nostro vivere quotidiano. Ci siamo spesso chieste come queste persone affrontassero tutto ciò. Il nostro intento è sempre stato di proteggerli e tenerli al sicuro da ciò che avveniva fuori, ma non sempre è stato facile far coincidere la salute fisica con la qualità di vita percepita.
In particolar modo, ci facciamo un milione di domande quotidianamente sull'universo Alzheimer, sia dentro che fuori struttura.
Abbiamo un nucleo protetto di 36 posti letto e seguiamo alcuni utenti a domicilio attraverso la misura "RSA Aperta", affetti proprio da questa patologia, come il sig. Zanotti, protagonista proprio di alcune pagine di “PerLungaVita”.
Incrociando esperienze e racconti, oggi siamo qui per dirvi…BASTA LAMENTARCI!!!
Cerchiamo solo per un attimo di capire che, per quanto questa esperienza possa essere stata dura per noi, gente “normale”, con accesso a tutta una serie di facilitazioni, potete immaginare tutto questo condito da una buona dose di disorientamento?? Vorremmo farvi riflettere su ciò che potrebbero essere le percezioni di un malato di Alzheimer ai tempi del Coronavirus. Non vi offriamo risposte, solo interrogativi per indurvi a pensare:
1. PROTOCOLLI VS VITA REALE
Isolamento? Da casa, tutti l’abbiamo provato, ma potevamo trovare ogni scusa per uscire …passeggiata col cane, farmacia, spesa di routine più le puntate improvvise…tutto per mantenere le nostre pseudo-routines egoistiche quotidiane, eppure a noi è sembrato di vivere una punizione, nonostante i suoni dell’ambulanza che passava continuamente ricordasse la nostra dimensione umana.
Ci è sembrato quasi una punizione stare a casa con i nostri affetti e dover passare tanto tempo con loro, impresa impossibile in altri momenti di normalità!
In RSA abbiamo dovuto applicare i protocolli dettati dai regolamenti in vigore, che inizialmente pretendevano quasi trasformassimo i nostri tempi e spazi di pace, come se invece fossimo stati strutturati per i tempi “di guerra”.
La RSA prima di tutto è una casa per i nostri ospiti, non un reparto ospedaliero. Spiegate ad un anziano che ha fatto la guerra, è sopravvissuto alla spagnola, che ha lavorato e lottato una vita per godersi i suoi ultimi anni serenamente, che, da questo momento in poi, non potrà più andare a pranzo a casa dei suoi familiari, non potrà mantenere vivo quel senso di famiglia rimasto, non potrà neanche più condividere certe attività all’interno della Struttura, con ospiti di altri reparti, con cui magari aveva stretto amicizie significative, per rispettare al massimo il distanziamento sociale.
Siamo stati spesso accusati di essere i “cattivi”, gli “insensibili” davanti alle richieste di “strappi alle regole”. Solo chi l’ha vissuta personalmente può dire quanto, affettivamente, è pesato far rispettare le regole.
2. MASCHERINA? CHE DRAMMA (molto più che per voi)!
20200421 112242Se a tutti noi questa mascherina, che ci accompagna a lavoro, quando facciamo spesa, e ovunque andiamo, pare così intollerabile, per un malato di Alzheimer equivale ad una vera e propria tortura. Farla indossare ad un malato? Certo, mettendo però in conto di amplificare all'ennesima potenza la confusione ed il senso di costrizione di persone già di per sé fragili...e poi, come glielo spieghiamo il perché? e ogni quanto? Come aiutarli a nominare le sensazioni negative che questa costrizione provoca, in presenza di deficit di comunicazione e/o cognitivo?
Se invece è il caregiver ad indossarla...che ne è del riconoscimento della persona, oltre che della mimica e dell'espressività di cui un malato di Alzheimer non può fare a meno? Per esperienza, si impara a sorridere con tutto il nostro essere… con gli occhi, per tentare di mantenere il contatto, anche se non è la stessa cosa. Il signor Zanotti, malato un po’ anomalo, è stato in grado di confermarci questa problematica, con la solita lucidità che lo contraddistingue, nonostante i suoi 8 anni di malattia.
I nostri utenti hanno una sensibilità straordinaria e mostrano tanta comprensione nei nostri confronti... esatto, ci comprendono! Molto più di quanto noi spesso comprendiamo loro. Ed imparano ad accettarci, seppur con i nostri volti visibili solo a metà.
3. E SE MI MANCHI?
Gli affetti, le relazioni sono una parte fondamentale della vita di ognuno di noi. In fase di emergenza, la chiusura della Struttura alle visite esterne ci ha permesso di preservare tutti e 87 i nostri ospiti. Ma, se ad un ospite cognitivamente integro è stata dura spiegare che improvvisamente e indeterminatamente non avrebbe più potuto ricevere le visite dei propri cari, come fare per i malati di Alzheimer? Anche la videochiamata, strumento fondamentale per comunicare sia privatamente con gli amici, sia al lavoro per accorciare le distanze con i familiari, è un concetto veramente al limite dell'astratto per una persona affetta da demenza (se non riesco a riconoscere un volto dal vivo, come posso riconoscere qualcuno dentro ad uno schermo? e come ci è finito, lì dentro?!). Telefonate? Idem, non sono per tutti...
L'unica nota positiva che abbiamo potuto constatare è che, per assurdo, gli utenti ricoverati sono stati meglio di quelli a casa, e sapete perché? A causa della patologia, la percezione del tempo che passa è stata ed è sempre piuttosto indefinita, perciò nel nucleo non si contano i giorni, la dimensione temporale è rimasta in una sorta di pausa... dicono ai loro parenti nella loro infinita dolcezza "è un po’ che non ci vediamo..." e sono sereni, attendono pazientemente, ma vivono nel qui ed ora.
Imparassimo tutti noi a vivere da Alzheimer, momento per momento, in modo pieno e godendoci il presente, forse ameremmo più autenticamente il vivere quotidiano...
4. PERCHE’ NON POSSO ABBRACCIARTI?
Il malato di Alzheimer è fisicità, impulsività, è pura essenza...ha bisogno di contatto e di sentire la vicinanza di chi si approccia con lui. Come è possibile spiegargli che non ci si può abbracciare, coccolare, stringere la mano? È stato difficile inizialmente, e lo è ancora di più ora, che, lentamente, si cerca di tornare ad una cauta normalità e si ricominciano le visite...da noi si svolgono in modalità protetta, con una di noi educatrici a "vigilare" e garantire la distanza fisica e l'assenza di contatto. Quando tutto ciò riguarda un Alzheimer, è straziante non poter giustificare il rifiuto di un abbraccio, è qualcosa che a noi fa un po’ morire dentro. Sappiamo però che è per il loro bene, e continuiamo su questa strada. Non possiamo cambiare questa regola, ma possiamo cercare di comprenderli, e questo è il lavoro più bello che noi tutti possiamo fare, per loro e per noi stessi. Un po' di sensibilità non guasta mai!
4. VIETATO USCIRE!
Avete mai provato a volervi muovere, a voler andare e sentire che qualcosa vi trattiene? O, se vi formicola un arto, riuscite a stare immobili aspettando che passi? Con quanta trepidazione vivete questa attesa? Il malato di Alzheimer a casa propria, pensiamo abbia vissuto e viva così questa chiusura… La maggior parte di loro presenta quello che si chiama “wandering”, vagabondaggio… La libertà di muoversi e di vivere l’ambiente è una necessità.
Anche in questo caso, la RSA ha fornito risposte più adeguate rispetto a coloro che vivono al proprio domicilio. La possibilità di avere a disposizione comunque spazi protetti, interni ed esterni, in cui sfogare questo bisogno di muoversi, ha fatto sì che si sentissero meno costretti. Zanotti, da casa, ha vissuto il lockdown come una vera e propria prigionia. Dopo la paura, “…non sono più spaventato, sono incavolato nero!”… Per chi, come i malati di Alzheimer, si ciba del contatto con gli altri e con il contesto, è a dir poco deleterio questo allontanamento da tutto…con ricadute inevitabili sulle capacità fisiche/funzionali, e non solo.
5. "POVERO ME", “NON RIESCO PIU' A...”
Le ricadute negative frequentemente hanno portato a patologie depressive (le abbiamo avute noi, perché un anziano dovrebbe esserne esente?), e queste, a loro volta, hanno sempre implicazioni sull’aspetto cognitivo. L’Alzheimer, come ogni altra forma di demenza, procede a tappe, o a stadi. Di nuovo, in RSA la vita è stata scandita dalle solite routines e poco è cambiato per i nostri ospiti, che, a distanza di qualche mese dall’inizio dell’emergenza, fortunatamente sono in generale sempre gli stessi, psico-cognitivamente parlando.
A casa, invece, in tanti hanno purtroppo fatto il “salto” di stadio. Più rallentati, più confusi, più tristi. E riprendere ciò che si è perduto è un’impresa spesso impossibile.
Riusciamo a capire quanto siamo fortunati ad avere risorse per il nostro vivere quotidiano, nonostante l’emergenza CoVid?
Vi abbiamo riportato questi pensieri perché ognuno di noi mediti.
Perché la smettiamo tutti di lamentarci e impariamo a “vedere e sentire” anche gli altri, uscendo un po' dal nostro auto-centramento.
E ad avere rispetto per la vita, sempre, in tutte le sue forme e manifestazioni. Concludiamo con un pensiero del regista Mazzacurati:
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.”
Da Villa Serena per ora è tutto. Viviamo il presente ed andiamo avanti insieme, indossando ogni giorno il più bello dei sorrisi!
Grazie per l’attenzione,
Alida e Sabrina

 PavarottiIl finale parafrasato della Turandot di Puccini introduce un prologo: dopo aver finito l’anno scolastico al liceo classico in maniera più o meno passabile (sono “esploso” poi all’università), a 14 anni sono andato a lavorare nel lido sul mare di mio zio svolgendo vari compiti, cassiere al bar, vice-bagnino, vice-cameriere. In Sicilia a quei tempi correva voce ammirata che al nord d’estate lavorassero anche i figli di papà. Non era certamente il mio caso.
Il lido era nuovo, tutto in legno colorato e in un posto incantevole, maldiviano, ma frequentato purtroppo dai miei coetanei del liceo, quelli ricchi, spesso biondi e con gli occhi azzurri (la mia invidia da adolescente verso i discendenti dei normanni!), qualcuno nero di avi arabi, altri smorti ma risplendenti nella postura che regala l’alterigia familiare da possesso di molti soldi e di un alto ceto sociale. Non erano della mia classe, ovviamente. Loro stavano nella A o nella B, quelli socialmente marginali cominciavamo dopo la C. Naturalmente non mi filavano, non mi salutavano nemmeno.
Insomma, da quell’anno (1959) ho sempre lavorato in estate e nel tempo libero.
All’università poi mi sono inventato un lavoro di editore di dispense di varie materie - rigorosamente dopo averle superate con un ottimo voto - e di venditore di libri di medicina usati e nuovi, persino arricchendomi con soldi onestamente guadagnati (ma a dire il vero non pagavo le tasse…) vendendo Introzzi, Chiarugi, Fulton. I miei manifesti pubblicitari alla casa dello studente prevedevano un incipit, UDITE PORCI e, sotto, le proposte di vendita. Nessuno si sentiva offeso da quello spirito cabarettistico-goliardico-dissacratorio. Anzi, compravano da me piuttosto che in libreria, presumo per via degli sconti e delle rate che proponevo.
Quel denaro, insieme al presalario (si chiamerà ancora così?), la borsa di studio annuale per chi “aveva la media alta”, mi ha permesso di laurearmi, pure bene e persino con un po’ di anticipo, a 24 anni appena appena compiuti e di cominciare a lavorare come medico un po’ di mesi dopo in ospedale a Valdobbiadene, dove mi sono fermato partendo all’avventura in macchina dal profondo sud isolano verso il promettente nordest, alle porte dell’impero. A Valdobbiadene erano finiti i soldi della benzina!
Questo preambolo conduce ad alcune personali riflessioni favorite dall’isolamento da Covid e da fatti che la natura delle cose ha intricato tra di loro. La prima che mi viene in mente è legata ad un’altra parola che sta scomparendo: Sacrificio. E’ in pericolo, potrebbe dissolversi insieme a Responsabilità e ad altre ancora di cui ho scritto  su Perlungavita.it
Nelle pieghe abbondanti di tempo libero dei mesi scorsi ho ritenuto, a questo punto della mia vita, di averne fatti abbastanza di sacrifici e salti mortali. Da questa considerazione è derivata una “quasi decisione” - rimangiata parzialmente proprio nei giorni scorsi - di smettere di lavorare, scelta aiutata da segnali lanciati dalla vita: la vendita da parte del proprietario dell’ambulatorio dove svolgevo la mia attività da decenni, la contemporanea disdetta dell’appartamento sui tetti dove abitavo in affitto, l’impossibilità da isolamento da Covid di trovare casa e bottega nella città che mi ha accolto quasi 50 anni fa, la scelta di vivere altrove per motivi affettivi e infine la considerazione poco eroica ma scientifica che a 75 anni sono ufficialmente vecchio e un soggetto a rischio.
Per i pazienti e per i loro familiari un laconico messaggio in segreteria telefonica ed uno scritto sul mio sito hanno completato l’opera …
A malincuore sono costretto a comunicare che a causa delle restrizioni legate alla pandemia da coronavirus l’ambulatorio resterà chiuso fino a quando la situazione creatasi ne consentirà la riapertura, che avverrà comunque in un altro Comune. Le Persone già note per precedenti valutazioni cliniche potranno mettersi in contatto con me via mail (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) dopo attenta lettura dei contenuti di questa pagina. La lettura dell’Avviso Importante riportato di seguito è indispensabile per coloro che richiedono pareri a distanza per Persone da me non precedentemente valutate.
Mi si chiede a volte quale collega “consigliare” (anzi, precisamente se conosco “qualcuno che lavora con le mie modalità”) creandomi un forte imbarazzo. Non so in piena sincerità se qualcuno lavora con le mie modalità, peraltro esposte in un CARTELLO bene in vista nell’ambulatorio e che vi riporto sotto. Aggiungo che da parte di più giovani colleghi ho persino ricevuto commenti ironici per il semplice motivo che la mia prima visita dura 60-75 minuti (e spesso non bastano!).
CARTELLO. Se state accompagnando a visita una persona anziana fragile con problemi motori o cognitivi o comportamentali, leggete prima attentamente queste righe! La complessità di molti casi clinici o del loro contesto socio-familiare e assistenziale può richiedere una prima visita di un’ora, la durata minima indispensabile per una accurata valutazione, rendendo tuttavia necessario spesso un ulteriore incontro con i familiari, in presenza o meno della Persona valutata (in diversi casi è preferibile la sua assenza per motivi che facilmente comprenderete), per ricevere o fornire informazioni aggiuntive e per elaborare strategie terapeutiche, con e senza farmaci, programmare sedute di “formazione” con neuropsicologhe esperte, ecc.
Chi desidera a tutti i costi una irrealizzabile banalizzazione di casi clinici complessi, può disdire l’appuntamento anche all’ultimo momento.
“Anche la disperazione richiede un certo ordine...”
Il cartello termina con questo stupendo frammento di una poesia di Blanca Varela che sottolinea la necessità di una visione attenta, oculata, lenta e rispettosa. E di tempo.

Cosa c’è scritto “cliccando” in questa pagina? Spiego che la neurologia è complessa e ancora di più lo è la neurogeriatria, che “far diagnosi da lontano”, cioè senza valutare di persona, è sostanzialmente impossibile in quanto i DETTAGLI sono basilari sia per dare una risposta responsabile su pazienti valutati mesi o anni prima – lo stato di salute dell’anziano è mutevole - che particolarmente su Persone mai viste. La successiva lettura dell’Avviso Importante giustifica il motivo di questa mia scelta attraverso il racconto di due storie (di malasanità) in cui insistentemente dei familiari hanno cercato (invano) di coinvolgermi, storie che potete leggere sul mio sito www.ferdinandoschiavo.it.
Durante l’isolamento, e dopo, sono stato raggiunto comunque da numerose richieste “impossibili”, sollecitazioni a cui ho cercato, considerate le difficoltà oggettive di tanta povera gente alle prese con problemi mutevoli e complessi, con farmaci “sospetti”, con medici ospedalieri e di famiglia impegnati, di dare qualche risposta e suggerimenti via mail o telefono.
In nessun caso sono riuscito a discuterne col loro medico.
Sono accaduti però alcuni spiacevoli episodi di comunicazione cafona: in una mail, in particolare, scritta dal figlio di un paziente a me sconosciuto sono stato redarguito con accuse di vigliaccheria, di venialità (???) e di fare i miei comodi.
A questo punto ho dovuto allargare i confini del mio messaggio ai pazienti e ai loro familiari, aggiungendo…
In questi giorni di pandemia, dominati dall’insicurezza e nel contempo dal bisogno di accertamenti e cure nella branca di mia competenza, la neurogeriatria, qualcuno ha contestato sia le mie modalità di lavoro che la chiusura dell’ambulatorio, peraltro determinata dalla vendita dello stesso da parte della proprietaria prima della pandemia, dall’impossibilità di cercarne e trovarne un altro (agenzie chiuse), nonché da necessità personali che non dovrò di certo esporre pubblicamente in questo contesto poiché fortunatamente non mi trovo nelle atmosfere di “1984” di George Orwell né immerso nell’attualità avvelenata dei social o di quei programmi TV SPAZZATURA in cui ognuno appare fiero di esibire il proprio privato, ma nel mio dignitoso mondo reale! Mi auguro di essere stato esauriente e che la mia scelta, dettata dall’esperienza di 51 anni di faticosa pratica medica e non certo da mancanza di collaborazione, di solidarietà, di empatia, di interesse verso chi sta male, oppure, peggio, da presunta venialità, ottenga il dovuto RISPETTO. È semplicemente il mio modo di lavorare, o di non lavorare, un privilegio conquistato con fatica, e a 75 anni!
Gli ammutoliti, probabilmente seguaci del Grande fratello e senza un libro in casa, non hanno avuto l’energia e la cultura per ribattere.
Ma la cultura purtroppo non basta per attenuare il virus della cafoneria. Il recente battibecco che ha coinvolto il superfamoso psicologo Raffaele Morelli “contro” Michela Murgia su Radio Capital ne è un esempio. Peggio è andata con Vittorio Sgarbi in parlamento, “un mostro costruito dal cinismo dei nostri anni… La sua maleducazione patologica, il suo imbarazzante narcisismo, la sua aggressività insopportabile, sono stati protetti e nutriti per decenni da conduttori e autori televisivi entusiasti di proporre allo spettabile pubblico, così come fece Barnum con la Donna barbuta, l’Uomo che Strilla… Così un ragazzo intelligente e colto è diventato un fenomeno da baraccone solamente perché la nostra epoca, della cultura e dell’intelligenza non sa che farsene. E se ne frega dell’umiltà, della mitezza, della gentilezza, considerati segni di debolezza…” (Michele Serra da Repubblica).
Esercitare in qualche modo la mia professione “da lontano” non è tuttora un piacevole compito, non si adatta a un pignolo. Concludo il mio articolo con questo breve, ennesimo, racconto di arroganza e di ignoranza, stavolta da parte di medici
Il mese scorso zia Marisa. la mamma ottantaseienne di un caro familiare in Sicilia (ma potrebbe accadere ovunque), è caduta in casa un paio di volte con dinamiche non ben chiare in quanto viveva da sola, malgrado avessi prospettato da tempo un supporto in casa o altre decisioni logistiche compatibili con un controllo adeguato poiché la malattia di Alzheimer si era abbattuta su di lei, donna fino a pochi anni fa forte, generosa e, lo assicuro con ulteriore malinconia, ottima cuoca!
Per telefono ho seguito la loro esperienza suggerendo le solite regole “banali”: toccate la lingua per vedere se è disidratata, sentite il polso per valutare se è irregolare, poi, arrivati in pronto soccorso, fatele dare un’occhiata a ECG, sodio, potassio, emocromo, altro, e in particolare alla pressione arteriosa, visto che da anni assumeva un ipotensivo “doppio”: nella stessa compressa era presente un diuretico e un altro farmaco ipotensivo, a dosi massime per quell’età. Oggi sono in commercio compresse\capsule che contengono anche tre farmaci ipotensivi, comodi da usare una volta al giorno ma adatti a persone collaborative e con un difficile controllo dell’ipertensione arteriosa.
Non era il caso della Zia Marisa.
Anzi, ho aggiunto, fate controllare la pressione arteriosa prima in posizione supina, coricata sul lettino, e poi anche in piedi…
La giovane dottoressa P. del pronto soccorso, in risposta a tale suggerimento giunto “da lontano” per bocca del mio familiare che ne ha specificato la provenienza, ha sorriso ironicamente aggiungendo che non serviva. Poteva essere dimessa ed affidata al suo medico.
A casa del mio familiare allora! A questo punto ha provato lui con il suo sfigmomanometro: 110\60 in poltrona e 85\40 in piedi... A quell’età, direbbe un onesto idraulico provvisto di buon senso, “là sopra nel cervello” non arriva nulla e gli si fa pure danno!
Non mi addentro sul tema molto dibattuto che riguarda i criteri di definizione dell’ipertensione arteriosa, sulle drastiche Linee Guida americane piuttosto in contrasto con quelle europee e specificatamente con le giuste cautele dei geriatri che consigliano di adottare la manica larga ad una certa età. Ritorno invece sul tema dell’ipotensione ortostatica su cui ho scritto varie volte.
Attraverso una mail al mio familiare ho suggerito al medico curante della zia Marisa di controllarla spesso e, nel caso si ripresentassero valori pressori un po’ alti (ho indicato almeno 150\80 se non poco più e senza energiche riduzioni in piedi), di cambiare magari farmaco usando una sola delle due sostanze ipotensive, insomma riducendo in qualche modo il peso della terapia. Questo atteggiamento di attento controllo è necessario in quanto i dati scientifici da tempo ci raccontano che coloro che “erano” ipertesi a 50 anni non è detto che lo siano ancora a 86!
Il medico é venuto a trovarla, ha molto sorriso anche lui alla lettura della mail, vi ha aggiunto una qualche venatura ironica e un tocco di arroganza, non ha mai controllato i valori pressori, figuriamoci quella stranezza: la pressione a paziente prima coricata e poi in piedi per tre minuti! Ha raccomandato infine di tornare a dare la solita compressa se superava i 130\80… Tutto o nulla.
È passato più di un mese, la zia Marisa viaggia ancora con valori di pressione arteriosa “bassi” per la sua età e non assume alcun ipotensivo. Oramai, tuttavia, cammina poco, è apatica, la sua indipendenza è globalmente e rapidamente precipitata. Anche la “pressione bassa” – e chissà da quanti mesi - a quell’età ha fatto del male al suo cervello! Si chiama danno emodinamico.
Non ho ancora risposto ad uno dei quattro quiz che ho proposto a gennaio. Lo farò in un’altra occasione… A questo punto presento e risolviamo insieme il quinto!
Pressione
Vi assicuro che nel mondo delle persone adulte e anziane il fenomeno dell’ipotensione ortostatica non è affatto raro. Il termine indica una diminuizione, rispetto ai valori riscontrati a paziente supino da almeno 5 minuti, della pressione massima (sistolica) di almeno 20 mm di mercurio o della pressione minima (diastolica) di almeno 10 mm di mercurio, scarto che si evidenzia entro 3 minuti dall’assunzione della stazione eretta. Ovviamente, maggiore è lo scarto fra le variazioni pressorie nelle due posizioni, più evidenti potrebbero risultare i disagi del paziente: sensazione di stanchezza, di stordimento, di capogiri o di precario equilibrio (… e cadute), di “testa confusa”, di apatia, fino alla “quasi sensazione di imminente perdita di coscienza” (pre-sincope) o alla perdita di coscienza di breve durata (sincope).
Questi sintomi, lo ripeto, possono essere avvertiti dagli anziani (e non!) sia quando i valori pressori sono stabilmente bassi oppure esclusivamente quando assumono, da seduti o coricati, la posizione eretta o la mantengono a lungo. Non esiste un valore critico per l’ipotensione sintomatica valido per tutti, in quanto è variabile da individuo a individuo per diversi fattori. Fra questi, ad esempio, diventano incisive le stenosi o le occlusioni dei grossi vasi arteriosi a destinazione cerebrale in quanto rappresentano un ostacolo meccanico al flusso arterioso verso il cervello, un ostacolo che può essere superato da una pressione arteriosa “brillante”.
In questa storia erano coinvolti una giovane collega (promettente!) ed uno al limite della pensione.
Chi li ha formati?
Chi proteggerà noi vecchi dalla malamedicina se voi sparuti lettori continuerete a stare in silenzio? Se vi capiterà un’esperienza simile – ma anche se siete anziani e assumete un ipotensivo - provate a cantare al medico superficiale “nessun foooormaaaa, nessun foooormaaaa…”. Un tocco di sarcasmo ribelle contro la cafonaggine e la superficialità professionale.
Vi lascio con l’immagine dolorosa del mio vecchio Adams & Victor abbandonato davanti al cassonetto della carta. Un doppio trasloco mette in gioco ricordi, sentimenti, nostalgie, necessità, praticità, valori, stanchezza (di quel momento) e decisioni (affrettate). Non ho avuto il coraggio di buttarlo dentro mischiato a meno nobili carte.
Chissà, un ragazzo o una ragazza lo prenderà e, sfogliandolo, si innamorerà del mio lavoro.
Adams Victor

 

francesca carpenedoUno dei leit-motiv di questo periodo pandemico che a me piacciono di più riguarda il cambiamento. Tutti quanti noi siamo consapevoli che, in qualche modo, questo periodo ci ha cambiati e che, da marzo niente è più, né sarà più lo stesso.E allora perché non approfittare di questo incredibile momento per imprimere con energia una svolta a ciò che in altri momenti di maggiore inerzia non siamo riusciti a modificare?
Nel mio caso, e da un punto di vista schiettamente professionale, vorrei davvero impegnarmi su due fronti verso i quali mi sento molto coinvolta:
-Lo sviluppo di un’autocoscienza e consapevolezza dell’importanza e della potenza del gruppo delle persone 65+ (che, con un senso di déjà-vu, mi richiama alla memoria le battaglie sociali degli anni ’70.)
-Il rimodellamento delle strutture residenziali al di là della burocrazia, una sorta di rivoluzione copernicana che metta finalmente al centro la persona assistita, i suoi bisogni, i suoi diritti ed il suo benessere (nel senso di serenità d’animo).
E quindi quale miglior trampolino se non la rivista Perlungavita?
Dal momento che è un argomento caldo, partiamo dalle “famigerate” case di riposo. Non è nemmeno più il caso di insistere sulla giungla di forme e modelli di strutture residenziali esistenti in Italia. Lo stiamo dicendo tutti da almeno 10 anni!
Inoltre il Covid 19 ha messo in luce, al di là del numero impressionante dei decessi, una modalità di gestione dei servizi e dei rapporti con i lavoratori e con gli anziani residenti che, a mio parere, necessita una revisione.
Posto che non è possibile disfare l’esistente, si può comunque cercare di mettervi ordine. Ma semplificando.
A quali criteri dovrebbe rispondere un buon sistema residenziale?
Dovrebbe rispondere alle esigenze del territorio. Dovrebbe cioè, sulla base delle caratteristiche della popolazione anziana, fornire una risposta – in termini quantitativi – adeguata alla richiesta. Dovrebbe anche essere sufficientemente capillarizzato sul territorio.
Dovrebbe rispondere ad esigenze di efficienza organizzativa. In termini di equilibrata correlazione tra i costi della gestione, il complesso dei servizi forniti, e i modelli di lavoro sviluppati.
Dovrebbe rispondere ad esigenze di efficacia attesa e qualità dei servizi. Dovrebbe cioè fare in modo che le persone residenti possano godere in sicurezza, tutela e dignità delle cure necessarie in un ambiente protettivo ma mai coercitivo; e che le persone che vi lavorano, siano messe in condizione di poterlo fare al loro meglio.
Viceversa, l’attuale costruzione burocratica fatta di infinite prescrizioni, autorizzazioni, limitazioni scoraggerebbe anche Giobbe e la sua infinita pazienza. Al contrario ha trasferito sui gestori una mole titanica di lavoro amministrativo e non ha fornito alcuna garanzia di qualità di servizio. L’ideale sarebbe poter rendere operativa una struttura residenziale con una semplice comunicazione in cui si dichiara quale sarà il progetto residenziale. A dichiarare, cioè: quali sono i bisogni che andrà a soddisfare;
- a quante persone fornirà assistenza e in che modo;
- quali i servizi sanitari e sociali intende fornire;
- dove intende farlo;
- quali sono le forme interne di controllo e tutela – degli anziani e del personale – che intende adottare;
- chi è il responsabile
Sarà poi il sistema di governo – nazionale e locale – ad adempiere puntualmente ai propri compiti di verifica e controllo:
1)il sistema centrale ad istituire un registro obbligatorio di tutte le strutture residenziali, senza limitarsi alle RSA, alle strutture convenzionate, alle residenze che si dichiarano dedicate alla cura della demenza;
2)il governo locale, la Regione, a verificare la fedele applicazione di detto progetto e a valutare se e come le persone ivi residenti trovino soddisfazione ai loro bisogni, al compimento del proprio progetto di vita.
La Legge 328/2000 che, a quanto mi consta, rappresenta ancora la legge nazionale di riferimento per l’organizzazione e la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali è già uno strumento completo.
Infatti, mentre l’art. 9 di detta legge stabilisce che è compito dello Stato la “fissazione dei requisiti minimi strutturali e organizzativi per l'autorizzazione all'esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale ..”, al precedente art. 8 si dice anche che funzioni delle Regioni sono “… e) promozione di metodi e strumenti per il controllo di gestione atti a valutare l'efficacia e l'efficienza dei servizi ed i risultati delle azioni previste; f) definizione, sulla base dei requisiti minimi fissati dallo Stato, dei criteri per l'autorizzazione, l'accreditamento e la vigilanza delle strutture e dei servizi a gestione pubblica o dei soggetti di cui all'articolo 1, commi 4 e 5; g) istituzione, secondo le modalità definite con legge regionale, sulla base di indicatori oggettivi di qualità, di registri dei soggetti autorizzati all'esercizio delle attività disciplinate dalla presente legge; h) definizione dei requisiti di qualità … m) predisposizione e finanziamento dei piani per la formazione e l'aggiornamento del personale addetto alle attività sociali; … o) esercizio dei poteri sostitutivi …”. Inoltre “le regioni disciplinano le procedure amministrative, le modalità per la presentazione dei reclami da parte degli utenti delle prestazioni sociali e l'eventuale istituzione di uffici di tutela degli utenti stessi che assicurino adeguate forme di indipendenza nei confronti degli enti erogatori.”
Non ci sarebbe bisogno di altro!
Anche a livello ministeriale tutti gli organismi di controllo sono già stati creati. Penso ad esempio a Passi d’argento [1], sistema nazionale che si avvale del contributo della Aziende Sanitarie locali per:
1. Rispondere alle emergenze
2. Effettuare indagini mirate
3. Approfondire i rischi per la salute
4. Monitorare periodicamente lo stato di salute e la qualità di vita riferito alle persone di età pari a 65 anni e oltre.
E penso anche all’Osservatorio sulle Demenze [2], strumento di censimento delle strutture semiresidenziali e residenziali che offrono servizi dedicati alle persone affette da demenza e che, inoltre, offre supporto al privato cittadino nell’orientamento ai servizi sul territorio.
Purtroppo questi strumenti sono sotto utilizzati e, con un po’ di buona volontà, potrebbero davvero contribuire ad una svolta positiva. Così come le Regioni potrebbero finalmente costruire quel sistema di sorveglianza attiva e tutela della persona anziana che viene da più parti auspicata.
Ma è anche vero che non possiamo sempre aspettare che siano gli altri a prepararci la pappa. E allora, se vogliamo che le case di risposo cambino vestito, cominciamo a tirar fuori ago e filo.
Recentemente, ho avuto modo di leggere due pagine di trascrizione della relazione del Prof Pierluigi Morosini tenuta ad una conferenza del 1984 a Ferrara. E sono rimasta colpita dalla linearità e completezza del pensiero riguardo alla valutazione dei servizi (in questo caso psichiatrici). Ma sono rimasta altrettanto colpita dall’attualità di quelle parole. Parole che possono agevolmente adattarsi al sistema delle strutture residenziali e alla crescente necessità di implementazione di un processo di autovalutazione di eccellenza. Ecco, sempre più strutture – e mi riferisco a quelle che sulla residenzialità operano sperimentazione di qualità, che pure esistono e sono molte anche se non fanno notizia – si orientano verso un percorso di questo tipo. Durante l’ultimo anno più volte ho toccato questo argomento con i responsabili di una struttura operativa in FVG e molto rinomata. Si sente forte l’esigenza di costruire un sistema di certificazione di eccellenza basato non tanto su caratteristiche strutturali quanto su criteri di qualità accertata dei servizi che garantiscano e promuovano il benessere della persona. Riuscire a coinvolgere, a livello regionale, tutte le strutture più virtuose e a sviluppare un modello di comunicazione efficace potrebbe dirottare le preferenze del cittadino verso un servizio che si adatti alle effettive esigenze individuali, non solo economiche o geografiche.
Un altro punto su cui credo si possa incidere positivamente è la fase informativa. Tante, troppe persone – soprattutto familiari – si trovano a dover affrontare emergenze e a prendere in troppo poco tempo decisioni importanti come la scelta di una struttura che diventerà la casa, propria o di un proprio congiunto. E purtroppo spesso basa le proprie decisioni sull’improvvisazione: si ricorda della pubblicità di quella struttura con quelle belle foto e non si preoccupa se dietro le belle dichiarazioni e le foto accattivanti ci sia la sostanza necessaria a mantenere le promesse. Ma una casa di riposo non è un detersivo e spesso, una volta presa la decisione, non è possibile tornare sui propri passi.
Quindi:
1. Registro anagrafico regionale e nazionale obbligatorio per tutte le strutture residenziali indipendentemente da forma e destinazione;
2. Organo regionale indipendente di tutela del benessere della persona a cui chiunque si possa rivolgere, che sia riconosciuto e a cui siano riconosciuti poteri di interazione con i soggetti privati e pubblici
3. Organismo unico regionale di valutazione periodica con poteri sanzionatori effettivi, magari costruito sul modello delle commissioni (con numero di componenti variabili a seconda delle complessità della struttura) inglesi istituite dalla CQC (Care Quality Commission)
4. Registro di eccellenza volontario e controllato
5. Programmi di informazione del cittadino
Questi potrebbero essere i punti di partenza per una nuova era delle strutture residenziali. Certo è un programma che coinvolge la comunità tutta. Che ne dite?

Note
[1] https://www.epicentro.iss.it/passi-argento/
[2] https://demenze.iss.it/

Claudia Ferrari“Non riesco più a riconoscere i volti delle persone, per me sono tutti uguali” mi dice Gianni con l’aria angosciata. Allora io gli chiedo “Anche il mio viso non riconosci? ““No, il tuo no e qualsiasi cosa succeda io il tuo viso lo riconoscerò sempre, e se non lo riconoscerò guardandoti lo riconoscerò toccandoti”
Questo è Gianni, che mi sorprende sempre. Un’ondata di emozione mi avvolge. Lo abbraccio, nascondendo il volto sulla sua spalla per non far vedere le lacrime sul mio viso.
Gianni è mio marito, ha 77 anni, siamo sposati da quasi cinquanta ed è malato di Alzheimer da quasi nove anni.
Io sono la sua caregiver a tempo pieno.
Quando eravamo giovani lui diceva sempre che da vecchi mi avrebbe protetta e si sarebbe preso cura di me. Nel rapporto di coppia lui era sempre stato il più forte e sembrava naturale che lo fosse anche da vecchio. Ma il destino ha rimescolato le carte ed è toccato a me occuparmi di lui. Non ero preparata per questo compito, ho imparato sul campo e non sapevo se ce l’avrei fatta.
Ero la donna più impaziente dell’universo e ho imparato l’arte della pazienza così come tante altre cose. Per amore si cambia e si impara.
Gianni è molto fragile e ha bisogno del mio appoggio costante e della mia supervisione in tutte le azioni della vita quotidiana. Nel suo ambiente è orientato nello spazio ma non nel tempo, la memoria a breve è completamente bruciata ed è lentissimo in tutte le sue azioni, anche nel parlare, ma è rimasto vigile e cosciente di quello che succede a lui e intorno a lui, è ancora curioso della vita ed è come se la sua sensibilità si sia accentuata.
La malattia è andata avanti molto lentamente, non so se per qualche misteriosa alchimia o se ciò è dovuto al fatto che in tutti questi anni l’ho inondato di stimoli e l’ho ricolmato di amore e di attenzioni. Lo porto sempre con me, dappertutto, parlo con lui in continuazione, gli racconto quello che succede nel territorio, a livello nazionale e internazionale e pretendo che mi dia la sua opinione.
Ho letto da qualche parte che il lavoro di cura è un lavoro di mani, di cuore e di cervello. È vero e devi sapere di volta in volta a cosa aggrapparti perché le situazioni sono sempre diverse. Se sbagli un approccio te ne accorgi subito perché loro regrediscono cognitivamente e allora cambi strategia. Nel mio caso posso dire di aver molto seguito la ragione del cuore e credo sia stata una scelta vincente.
Un ruolo importante ha sicuramente avuto anche il contesto in cui viviamo, il fatto che non ci siamo rinchiusi in noi stessi ma ci siamo aperti al mondo, e poi il suo carattere tenace e combattivo e la sua passione per la scrittura.
Nei primi anni della malattia, quando i ricordi non erano ancora scomparsi, ha scritto la sua autobiografia, per non dimenticare. Con il suo primo libro, Gianni ha scoperto quella che lui definisce “la magia della scrittura”. È vero che gli è sempre piaciuto scrivere, ma ora è stato qualcosa di diverso, un innamoramento vero e proprio e come tutti gli innamorati lui ci si è buttato a capofitto. La scrittura è stata per lui come un balsamo che gli ha dato serenità e ha alleviato le sue ansie e le sue paure. Da qui un secondo libro “In viaggio con l’Alzheimer” nonostante siano aumentate le difficoltà perché non riesce più a tenere la biro in mano, la biro gli sfugge dalle dita e non può più scrivere. Il Sig. Alzheimer, come Gianni chiama la malattia, sta lavorando con un’arma in più: il tempo, quel tempo che scorrendo, accelera la patologia.
Ma Gianni è tenace e con l’aiuto di una bravissima educatrice, abbiamo trovato il modo di procedere mettendo da parte ancora una volta il Sig. Alzheimer.
Che altro dire? Io non sono più giovane, il lavoro di cura è pesante, il futuro incerto, sono molto stanca e qualche volta molto triste ma mai depressa. La tristezza mi passa parlando con gli amici, osservando la natura: abitiamo in campagna e attorno a noi c’è un paesaggio splendido, ascoltando la musica, cosa che piace molto anche a Gianni e cucinando cose buonissime. Quando la sera appoggio la testa sul cuscino, mi addormento serena perché so che durante il giorno ho fatto tutto quello che potevo per rendergli la vita migliore e accettabile. Mi bastano il suo sorriso ed il suo sguardo dolcissimo per darmi la forza di andare avanti ed affrontare un nuovo giorno. E poi, voglio essere ottimista, esiste anche la ricerca. Chissà, magari domani, tra una settimana, tra un mese o tra un anno, in qualche angolo del mondo verrà messo a punto un farmaco che rallenterà definitivamente questa malattia. Perché non crederci?