Alice Ricchini | Ilaria Iseppato |
La complessità(1)dei processi di cura e riabilitazione ha senza dubbio contribuito ad indurre il superamento dell’esclusività del rapporto medico-paziente, conducendo all’integrazione di saperi e competenze che, seppure diversi per profili funzionali e metodiche professionali, parimenti concorrono al soddisfacimento della domanda di salute degli individui (2).
L’organizzazione socio-sanitaria fortemente gerarchizzata lascia, così, il posto ad équipe assistenziali multi professionali, composte da figure complementari, ma relativamente autonome nell’esercizio delle proprie peculiari competenze. Si vengono così a creare dei gruppi di lavoro formalmente riconosciuti, aventi diritti e doveri distinti, ma un comune obiettivo professionale: la salute del paziente. A questo processo evolutivo ha notevolmente contribuito la forte espansione del mercato sanitario e della richiesta assistenziale in generale, che ha costretto la classe medica a ricorrere allo strumento della delega dei compiti ad altre figure (3) .
L’istituzione di una figura di supporto all’assistenza risale in realtà al lontano 1990, data la necessità di migliorare l’assistenza alle persone non autosufficienti nello svolgimento delle attività quotidiane, prevenendo eventuali complicanze, e l’esigenza di ricondurre l’infermiere a funzioni e responsabilità di sua stretta competenza. Tuttavia, è solo con il Decreto del Ministero della Sanità del 18 Febbraio 2000 e l’Accordo Stato-Regioni del 22 Febbraio 2001 che nasce la figura dell’Operatore Socio-Sanitario (OSS), con un profilo formativo e professionale ben distinto. Gli scopi ultimi della sua attività, per l’esercizio della quale gode di autonomia operativa ma non decisionale, consistono nel:
• soddisfare i bisogni primari, sociali e sanitari, della persona;
• favorire il benessere e preservare l’autonomia dell’utente.
A questo operatore è sempre più richiesto di conoscere strumenti ed attrezzature infermieristiche e per la riabilitazione, di essere in grado di supportare processi anche complessi di intervento e di saper gestire relazioni critiche con utenti e familiari. Va, tuttavia, sottolineato come ancora permangano differenze nominali e funzionali nell’ambito di questa figura professionale, vista l’autonomia regionale nel recepire le disposizioni nazionali e l’assenza di un provvedimento legislativo che armonizzi i profili – anche formativi – delle figure professionali sociali, così come previsto dalla legge 328 del 2000.
Da un campione di 3.526 OSS intervistati nel 2011 in 11 regioni italiane, nel rispetto delle proporzioni estrapolate dai sistemi informativi regionali, emerge una netta prevalenza di operatori impegnati in strutture residenziali e in servizi per anziani e disabili. Gli operatori più giovani sono maggiormente concentrati nell’area delle dipendenze e dei minori. L’operatore socio-sanitario è in prevalenza donna, ha più di trent’anni, una bassa scolarità ed esperienze lavorative pregresse in ambiti diversi dal socio-sanitario; tuttavia, ha ottenuto una qualifica coerente con la sua attività, che svolge con soddisfazione personale, tanto da mantenersi assiduamente impegnato nel sociale anche nel tempo libero (a titolo di volontariato). L’indagine evidenzia, infatti, come il possesso di un titolo pertinente con l’esercizio dell’attività assistenziale renda maggiore la coerenza fra l’attività lavorativa svolta e la formazione ricevuta ed incida positivamente anche sul grado di soddisfazione percepita.
In merito ai compiti ed alle attività che gli OSS intervistati sono quotidianamente chiamati a svolgere, la maggior parte degli operatori (56%) dichiara di espletare, oltre alle previste attività di tipo assistenziale, anche compiti di tipo educativo (in particolare, supporto alla comunicazione/relazione ed attività ricreative), senza discrepanze territoriali. Interessante, inoltre, il contributo dell’OSS nel facilitare l’utente nel rapporto con i servizi stessi. Fra le attività prettamente assistenziali primeggiano l’aiuto alla cura dell’igiene personale (92,6%), l’aiuto nella preparazione e nell’assunzione dei cibi (82,7%) ed il supporto alla mobilità (79,7%).
Oltre il 75% degli intervistati dichiara di lavorare alle dipendenze di un datore di lavoro privato (in particolare cooperative sociali, associazioni o fondazioni), dove è prevalentemente inquadrato con un contratto di lavoro a tempo indeterminato e/o come socio lavoratore (soprattutto tra i più anziani). Rispetto, invece, alla tipologia di servizio, gli OSS intervistati dipendono in misura prevalente dai pubblici uffici nei servizi a carattere domiciliare e territoriale, dove, in effetti, il privato-sociale è maggiormente assente. Per ciò che concerne i livelli retributivi, nella stragrande maggioranza dei casi si attestano tra gli 800 e i 1200 euro netti al mese; guadagnano di più gli uomini, i dipendenti pubblici e chi presta servizio nelle residenze per anziani e disabili.
L’OSS si configura come la più stabile tra le figure afferenti al cosiddetto proletariato dei servizi (pochissimi – ma soprattutto uomini – detengono posizioni di responsabilità), con tutte le conseguenze, soprattutto economiche, che ne derivano: oltre l’80% degli operatori intervistati dichiara, infatti, di riscontrare delle difficoltà ad arrivare a fine mese.
La figura dell’OSS, come tutte le professioni d’aiuto, è sottoposta a un forte stress lavorativo, dal momento che i compiti che svolge non concernono soltanto competenze tecniche, ritmi e organizzazione lavorative, ma racchiudono abilità sociali ed energie psichiche rivolte prevalentemente alla soddisfazione dei bisogni degli utenti, spesso a contatto con la sofferenza e la malattia.
Lo stress lavorativo, definito anche burn-out, indica un’esperienza emozionale negativa percepita sul luogo di lavoro ed è influenzato dalle caratteristiche strutturali, ambientali e tecnologiche in cui l’OSS espleta l’attività lavorativa, tra cui un’organizzazione disfunzionale del lavoro, mansioni inadeguate rispetto alle aspettative, ridotta autonomia decisionale, scompenso motivazionale e un sovraccarico emotivo e di lavoro.
Le ricadute di questo assetto coinvolgono sia il benessere psichico, che quello psicologico, seguendo un processo che possiamo sintetizzare in specifiche fasi:
- squilibrio tra risorse disponibili e richiesta;
- sensazione di ansia, tensione, fatica ed esaurimento;
- cambiamento nell’atteggiamento e nel comportamento.
Per far fronte a queste problematiche vengono messe in atto strategie di coping, dunque le reazioni che conseguono situazioni di stress lavorativo si manifestano, secondo la letteratura, in tre ambiti distinti fra loro:
- esaurimento emotivo;
- depersonalizzazione;
- realizzazione personale
L’insieme di questi comportamenti delineano lo stress lavorativo come una malattia professionale. Le conseguenze hanno ricadute sia sugli OSS, che sugli utenti. I primi sentiranno diminuire sempre di più la soddisfazione per il proprio lavoro, ma anche un distacco emotivo; i secondi vedranno diminuire la qualità delle cure e del trattamento che viene fornito loro dagli OSS, nonché una scarsa empatia dovuta ad una presa di distanza degli OSS dai problemi dei pazienti.
Per meglio comprendere lo stress lavorativo a cui sono sottoposti gli OSS è stata indagata la percezione di tre aspetti peculiari: impegno, risorse e sovraccarico di lavoro.
Il profilo socio-demografico ci mostra come siano gli OSS con più di 40 anni a percepire una maggiore richiesta di impegno rispetto alle proprie competenze. Soprattutto sono le donne a riscontare sia un elevato impegno, che un sovraccarico di lavoro, forse dovuto all’alta richiesta di partecipazione emotiva che ha sempre delineato nell’immaginario la professione dell’OSS come prevalentemente “femminile”. Inoltre, per quan-to riguarda il titolo di studio, è evidente come siano gli OSS con una qualifica elevata (diploma-laurea) a percepire delle ricompense nettamente inferiori rispetto alla propria istruzione, dove con ricompense si fa riferimento ad aspetti come la stima, promozioni, salario e stabilità lavorativa.
Approfondendo gli aspetti lavorativi che concorrono a creare una situazione di stress emergono risultati interessanti. Un impiego a tempo pieno e ricoprire un ruolo di responsabilità sono fattori che determinano una percezione di maggior impegno richiesto e sovraccarico di lavoro da parte degli OSS, soprattutto in contesti dove viene meno la collaborazione e il supporto da parte dei colleghi e l’autonomia decisionale viene notevolmente ridotta. In particolare, gli OSS insoddisfatti per il proprio lavoro lamentano una scarsa percezione delle ricompense, pertanto la soddisfazione lavorativa si delinea come elemento centrale per prevenire situazioni di stress lavorativo.
I servizi residenziali e altri tipi di servizi, esclusi quelli semi-residenziali e quelli domiciliari, emergono come i contesti lavorativi più a rischio di stress lavorativo per gli OSS. In particolare sono l’area degli anziani e quella dei servizi multiutenza a richiedere un maggior impegno lavorativo. Per contro sono le aree d’intervento per i disabili e per la salute mentale quelle percepite meno impegnative. A livello regionale il primato di più alto impegno lavorativo percepito spetta agli OSS dell’Emilia-Romagna.
Complessivamente gli operatori socio-sanitari sono a forte rischio di stress lavorativo, dal momento che la loro professione richiede un grosso impegno, ma le ricompense per i loro sforzi sono inadeguate. Per far fronte a questi rischi diviene pertanto necessario mettere in atto diversi interventi preventivi d’informazione, formazione, ma anche interventi specifici sia attraverso una migliore collaborazione con lo staff, che per mezzo di modifiche organizzative che distribuiscano gli sforzi incrementando le risorse disponibili.
La prevenzione dello stress lavorativo dovrebbe essere uno dei punti principali nel programma di formazione del personale per gli operatori socio-sanitari, contribuendo allo sviluppo di un solido modello di gestione dove venga promulgata la partecipazione e l’autonomia del personale, la risoluzione di tensioni e conflitti e la condivisione dello stress e delle responsabilità.
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(1) Il presente contributo rappresenta una sintesi del capitolo scritto dalle due autrici all’interno del volume a cura di Cipolla C., Campostrini S., Maturo A. (2013), Occupazione senza professione? Il lavoro nel settore dei servizi sociali, FrancoAngeli, Milano.
[2] Giarelli G., Venneri E. (2009). Sociologia della salute e della medicina. Manuale per le professioni mediche, sanitarie e sociali. FrancoAngeli, Milano.
[3] Montaguti L., Pinna L., Porcu E. (a cura di) (2008), Formazione e ruolo dell’Operatore Socio-Sanitario. L’esperienza della Regione Sardegna, FrancoAngeli, Milano.
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