CASA SALCE
uno dei centri di servizi dell’ISRAA di Treviso, sorge all’interno delle mura del centro storico e offre alle persone anziane una residenzialità in grado di garantire risposte specifiche ai diversi bisogni che possono caratterizzare le varie fasi dell’invecchiamento. Nell’area limitrofa alla residenza sorgono anche gli edifici che accolgono la recente esperienza di senior cohousing. (1)
Nelle foto: La facciata di Casa Salce, il Borgo Mazzini smart cohousing, vista da una camera di Casa Salce
ATTREZZARSI PER COMBATTERE IL CONTAGIO, SOSTENERE RESIDENTI, FAMIGLIARI E PERSONALE
Laura Lionetti
Quando da covid free si diventa covid full cambia tutto. Quello che al pensare era inimagginabile, in un attimo diventa la realtà.Quello che avevi ascoltato, visto e letto delle esperienze degli altri diventa la tua esperienza.
E inizia un viaggio faticoso, travolgente, drammatico, che porta all’essenza del lavoro di cura e delle relazioni.
Attrezzare un’ala covid, fare i trasferimenti, comunicare ai familiari, lavorare bardati come palombari, applicare protocolli e procedure, fare errori e imparare dagli errori, riorganizzare e riorganizzarsi continuamente, restare con il fiato sospeso ogni settimana facendo i tamponi, piangere, fare video chiamate, stravolgere la vita degli anziani...
Le priorità:
- contenere la diffusione del virus
- sostenere i residenti
- sostenere i familiari
- sostenere il personale
È dura perché da una progettualità in cui si lavorava sulla qualità dell’assistenza e sul sostenere i desideri, dare vita ai sogni, creare anche qualcosa di speciale, si passa ad una realtà in cui dobbiamo limitare, contenere, distanziare.
È un’esperienza che richiede un cambiamento del modo di pensare, un arrendersi al fatto che quello che c’era prima non c’è più e il futuro sarà diverso dal prima, come nelle discipline orientali un cedere per poter fare la mossa migliore.
E mentre attraversiamo questa esperienza scopriamo nuove potenzialità, dei residenti, degli anziani, dei familiari.
Il “buongiorno vecchie” dell’assistente sociale, appuntamento fisso per salutare e sostenere le residenti in isolamento; le signore dell’igiene ambientale che lasciano post- it di incoraggiamento nelle camere; residenti che devono essere trasferiti dal loro mondo ad un posto che sembra un ospedale e spesso sorprendendoci riescono ad ambientarsi; la morte veloce e ravvicinata di chi abbiamo seguito per anni, l’esperienza degli OSS di essere i “prossimi” al morente in assenza dei familiari; OSS che saltano riposi e non si tirano indietro, infermieri che fanno doppi turni, familiari che oltre a chiedere notizie del loro caro si preoccupano del personale, anziani che attraversano il covid e tornano nelle ore stanze di autosufficienti, anziani che restano compromessi …
E quello che era ostacolo e ricerca, diventa esperienza grazie all’emergenza.
La comprensione della complessità di casa albergo, l’integrazione tra le tutte le figure professionali, un senso condiviso di ricerca di cosa serve alla persona … bere mangiare essere alzati … ma anche una piccola passeggiata accompagnati in giardino, il condividere con i familiari l’invio delle merendine preferite ...
Cosa vorrei restasse di questa esperienza:
la Flessibilità,
la ricerca e la consapevolezza delle Azioni di valore,
la Narrazione di una quotidianità straordinaria,
il Radicamento che può dare la grandezza dell’esperienza umana.
LETTERA ALLA SQUADRA
Gioia Martignago
Penso a questi mesi e alle cose che ci siamo dette ieri, e arrivano tanti pensieri.
Vorrei raccontarvi come è cambiato il mio lavoro, con il Covid
Perché senza che me ne accorgessi è cambiato tutto, un pezzettino al giorno, e solo guardandolo adesso, dopo un po’, mi rendo conto che è diventata la nuova normalità, è già un automatismo.
Non stringo più la mano.
Non stringo più la mano da quasi sei mesi, a nessuno: a chi chiede informazioni, a chi viene a fare la domanda, ai familiari.
Non stringo più mani. Non mi presento più così.
Per me è una cosa rivoluzionaria perché è sempre stato il primo contatto, la primissima presentazione con le centinaia di persone che ho incontrato in questi anni.
Seguo dei tempi tutti nuovi, tempi dei tamponi, degli esiti, della quarantena. Ne parlo ai familiari dei nuovi ingressi con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E loro lo accettano. Dicono “certo, certo”.
Dico loro che quando ci portano la mamma per 15 giorni non la vedranno. E loro capiscono, un po’ si preoccupano. Ma ti dicono “Certo, certo”. È tutto normale. Le prime volte mi vergognavo un po’ a dirlo, lo facevo con imbarazzo. Ci ho messo tempo a capire che la mia reazione era normale: ma come, per 5 anni ho invitato i familiari a vedere la sede, a venire a trovarli in camera, ad essere presenti specie i primi giorni. E adesso gli dico l’esatto opposto. State lontani. Non venite. Fidatevi Gioiache facciamo noi. Prima gli dicevo che appena entrati avrebbero conosciuto ognuno di voi. Adesso gli racconto i vostri visi e le vostre professionalità attraverso una cornetta. Vedrete che ci conosceremo prima o poi, ci berremo un caffè assieme. Loro rispondono “Certo, certo”. Si fidano. Non obiettano. Mi chiedo quanta fiducia abbia potuto costruire in un colloquio fatto un anno fa quando hanno presentato la domanda. Se sia sufficiente a sostenere tutti i dubbi che avranno nel prossimo periodo. Certo che no, non basta. Persino alla scenetta di visita alla stanza ho dovuto rinunciare, uno dei momenti che preferisco, dove illustro i pregi e i pochissimi difetti della camera, dove gli garantisco che mamma o papà staranno bene con noi. E lo dico perché ci credo, non per vendere. Se fosse solo per quello sarebbe tutto molto diverso. Adesso la camera la vedono in videochiamata su whatsapp. 5 minuti puliti puliti, ci metto 1/5 del tempo. Ma mi diverto molto meno. Se sono diminuiti i contatti di persona però sono aumentate le telefonate. Continue. Per qualunque cosa. Con toni e ansie più o meno diversi.
E allora ditemi, cosa c’è di normale in tutto questo? Cosa rimanere, per me, del mio lavoro? Mi sono risposta che ne rimane l’essenza, il senso. Ma non la normalità. Quella scusatemi, ma non c’è.
E allora che liberazione quando settimana scorsa Laura ha detto che “ far convivere covid e normalità è una cazzata”. Personalmente mi sono alleggerita della zavorra degli ultimi sei mesi. Perché non c’è proprio niente di normale. Diciamocelo, non abbiamo paura di dircelo. Perché può solo farci stare meglio ammetterlo. Siamo tutti preoccupati, spaventati, intimoriti, insicuri. Lo siamo nel lavoro e nella vita. È stolto pensare che non sia così, ancora più stolto non riconoscerlo. Io sono 6 mesi che sono preoccupata per i miei genitori, per la mia famiglia, per mia nipote, per i miei amici, per i vecchi (tantissimo), per voi. Lo sono io come lo siete voi. Ognuno ha la sua storia, che non conosciamo, ma c’è e la rispettiamo. Non è normale essere preoccupati per così tanto tempo, essere in apprensione per tanto tempo. Ma è normale esserlo in questo momento, perché questa è la normalità. La normalità dell’ora, dell’adesso. Ieri l’abbiamo detto, siamo rimasti tutti annichiliti vedendo l’esercito portare via le bare di Bergamo.
E allora quale è il senso di questo momento? Cosa facciamo? Ieri non mi ricordo chi ha detto che non sappiamo dove andare, per questo facciamo fatica e che è difficile perché impossibile progettare. Non son d’accordo: credo che dove andare e che progetti fare siano molto chiari. O almeno questa è la riflessione e la motivazione che ha mosso me da marzo ad oggi: i vecchi. Ma i vecchi nel senso più profondo. Riprogettare e rendere straordinario quello che è la mission dell’ISRAA che è talmente radicata (per fortuna) che non ce la siamo neanche detti. Per citare la signora Adriana una cosa dobbiamo fare: custodirli. Tenerli al riparo, proteggerli. Concentrare tutte le nostre energie su di loro, ognuno con la propria competenza. Questo dobbiamo fare. Tutto quello che arriva in più è grasso che cola, ma è un in più. Arriva solo se abbiamo un eccesso di energie, non può essere la norma. E allora così anche 350 tamponi una volta al mese hanno un senso, hanno un senso le visite con il plexiglas, le limitazioni. Certo, tutto questo è banale. Ma ce lo siamo mai detto, ci siamo mai detti che tutte le nostre azioni quotidiane sono volte a questo? A custodirli? Credo di no, abbiamo cercato di inserire a forza il vecchio e il nuovo, di farlo coesistere. Ma adesso non possono farlo, non è ancora possibile che la vecchia vita e la nuova vita sopravvivano assieme: se c’è una, difficilmente può esserci l’altra. E attenzione: credo fermamente che tutto quello che abbiamo fatto finora fosse volto esclusivamente a custodire gli anziani. Ma forse, come ci è capitato spesso, ci siamo dimenticati di dirlo a voci alte. E, soprattutto, di riconoscerlo.
E di riconoscercelo a vicenda.
Sempre grata di lavorare con ognuno di voi.
In questo 2020, ancora di più.
OTTOBRE DUEMILAVENTI
Sara Pollon
Venerdì̀ pomeriggio, inizia a calare il sole. L’ora è già̀ quella solare.
La decisione è stata presa.
Per i quindici giorni necessari ad arginare la diffusione del virus, Annamaria trascorrerà̀ le sue giornate dal quinto piano di Casa Albergo, l’ultimo quello da cui si padroneggiano i tetti della città, al secondo.
Lì è stata allestita l’area rossa. La coordinatrice e la psicologa l’hanno già̀ avvisata.
“È per il suo bene, sarà̀ solo per un periodo, vedrà̀ che si troverà bene.”
Accetta di buon grado Annamaria, si lascia guidare da subito da queste due figure che ben conosce.
Lasciare la propria camera, per trasferirsi dove ci sarà più assistenza, non è facile.
Ma Annamaria si fida.
Fuori dalla sua porta c’è il tavolino con alcool, guanti, camici, è il segnale che in quella camera c’è una residente positiva al Covid diciannove.
Busso, con me ho un carrello per trasportare gli oggetti utili e una scorta di gentilezza che so essere indispensabile.
Annamaria, sorridente mi accoglie, non faccio a tempo a pronunciare una parola,
è lei ad esortarmi.
“Sei qui per portarmi giù?”
Iniziamo dal comodino, troppi oggetti, decidiamo di portarlo via tutto intero. Lampada compresa. Poi andiamo con ordine, vestiti, giusto per i prossimi giorni, pigiama, ciabatte.
Raccogliamo gli indispensabili: cellulare, carica batteria, dentiera, occhiali, rubrica...
Carichiamo tutto sul carretto che comincia ad essere bello pieno.
È solo lo stretto necessario, il resto si vedrà...
Siamo pronte. C’è tutto. Ci siamo lei ed io.
Uno sguardo alla camera, s’impugna il deambulatore, un giro di chiave e via all’ascensore.
“Ma sono l’unica ad andare al secondo piano?”
Il tempo di dieci passi, lenti, da novantaseienne e arriva la domanda.
“No, con lei ci saranno altre tre persone”
Entriamo in ascensore e si percepisce la concentrazione nel rielaborare la risposta appena ricevuta.
Non c’è paura nel volto di Annamaria, c’è quasi una sorta di curiosità. È come se stessimo vivendo un’avventura.
Non sappiamo a cosa andremo incontro, è il caso di dirlo, ma in un qual modo ci fidiamo l’una dell’altra.
I dettagli sono importanti penso, mentre il consueto scampanellio ci fa intendere che l’ascensore è arrivato a destinazione.
“Vi ho rifatto il letto a tutte e quattro con il copriletto rosa, spero le piaccia!”
Annamaria mi sorride compiaciuta, ha intuito il mio impegno nel rendere questo cambiamento un po’ più soffice.
Nel corridoio che conduce alla nuova stanza iniziamo ad incontrare le operatrici socio sanitarie, l’infermiera. Visi sconosciuti coperti dalla mascherina e dalla visiera, corpi imbacuccati in un camice che lascia scoperti solo i piedi.
Annamaria saluta con la cortesia che la contraddistingue e non si lascia intimidire. Si lascia guidare fino al varco della sua camera.
“Dato che è la prima ad arrivare, qual letto vuole scegliere? Lato finestra o lato interno?” “Preferisco verso la finestra”. E sia.
Rimettiamo a posto il comodino, i vestiti sulla sedia, il cellulare in carica e in cuor mio ripongo la consapevolezza che il primo passo è stato fatto.
Arrivano poi Vanda, nel letto affianco e nella camera adiacente anche Bertilla e Cesarina. Fuori ormai è buio da un pezzo, è ora di cena.
Annamaria si accomoda, io saluto. Ci rivedremo lunedì.
Lunedì: qualche voce mi era già arrivata durante il weekend.
Pare che ad Annamaria tutta questa faccenda del trasloco, non sia piaciuta più di tanto. Pare, ma in realtà Annamaria è proprio incazzata.
Mi ritrovo di nuovo di fronte alla sua porta.
Busso, nessuna risposta. Busso forte, silenzio.
Man mano mi avvicino al letto, mi paleso, accenno ad un “buongiorno” carico di energia. Annamaria ricambia: nel giro di due minuti, distesa a letto, sotto le coperte, rivela tutta la sua rabbia, la sua preoccupazione, la frustrazione di ritrovarsi in un posto che non riconosce, in cui non vuole stare e dove tutto va a rotoli.
C’era da aspettarselo penso. E adesso che diamine le dico?
Niente.
Mi siedo vicino al letto e lascio che Annamaria esprima tutta la sua angoscia.
L’ascolto, la osservo, annuisco, senza proferire parola. Penso ad un canale diverso per riuscire ad entrare in comunicazione. Quando lei lo vorrà.
Dopo un po’ arriva la chiave giusta. Esprime disagio per un oggetto di cui ha bisogno e non ha. Mi adopero per portarglielo, le faccio capire che ci sono, che sono lì per lei.
Le propongo di alzarsi dal letto, accetta. Anzi, lei non si sente mica niente.
Non capisce proprio perché è finita lì, non ha sintomi e si sente in forze.
Ci vestiamo, rifacciamo il letto, il sottofondo non è cambiato. Ma ci mettiamo in moto.
Per tutta la mattina sono stata accanto a lei, abbiamo camminato per il corridoio, telefonato a suo figlio, bevuto il caffè, osservando fuori dalla finestra un inedito panorama.
Il suo sguardo, tagliente, pian piano si ammorbidisce.
Annamaria riesce a mettere in parole la sua rabbia.
È preoccupata, non si riconosce. Tenta di apprezzare gli accorgimenti che le sono stati rivolti in questi due giorni, ma è faticoso. Si guarda intorno con circospezione.
Passata la mattinata, pare essere più tranquilla.
Di poco, ma è quel che basta per aprire uno spiraglio positivo su questa esperienza che di certo ci segnerà.
I giorni seguenti vanno meglio, Annamaria prende maggiore confidenza con l’ambiente, inizia a conoscere tutti gli operatori e le infermiere che lavorano al piano. Si concede qualche momento di serenità, passando a salutare le altre persone che sono lì con lei, legge il giornale, cammina a lungo e trascorre lunghi minuti al telefono con i figli e con le tante altre persone che conosce.
Una mattina le faccio una bella manicure, che la fa sentire a posto e le consente di raccontare gli episodi belli della sua vita.
Cominciano ad avvicinarsi i giorni che mancano al termine della permanenza nella zona rossa, se il test darà l’esito sperato, Annamaria potrà ritornare a godere della vista dei tetti di Treviso.
E quella prospettiva l’aspetta.
Ce l’ha fatta con la sua tenacia, è riuscita a sconfiggere il virus e a riprendere il suo posto.
Spetta nuovamente alla coordinatrice annunciare la notizia, questa volta è quella buona. Annamaria fa letteralmente un salto e spontaneamente abbraccia Lucia, che è avvolta nella ormai consueta divisa monouso.
La notizia non fa a tempo ad essere comunicata che già corre per i corridoi del secondo piano. Siamo tutti contenti per Annamaria, ma ci dispiacerà non vederla più passeggiare.
Durante queste tre settimane si è fatta conoscere per quello che è, una donna forte, che sa il fatto suo e non teme di affermarlo. Una donna anziana, che riconosce il valore di ogni giorno e che ci insegna a non accontentarci, anzi a vivere appieno.
È sempre venerdì ma stavolta si ripercorrerà il percorso al contrario.
“Sono qui per esaudire ogni suo desiderio” dico con voce squillante ed emozionata.
In un battibaleno il carretto è ancora una volta colmo.
Dopo pranzo, Annamaria si corica un po’ e poi via, si parte.
Saluta e ringrazia tutte le persone che incontra, si è trovata bene afferma, ma spera di ritornare solo per una visita, non per rimanerci!
Arrivate davanti alla sua camera, nota che non c’è più la presenza ingombrante del tavolino.
Infilo la chiave nella toppa, lascio a lei l’emozione di aprire la porta ed entrare per prima.
Ci avvolge la felicità di essersi riappropriata della propria libertà. È palpabile nell’aria.
È ora di risistemare tutto com’era prima.
Annamaria sa perfettamente dove vanno tutti gli oggetti.
È il suo ordine, nella sua camera. Io l’aiuto a riporli, valorizzando e rispettando le sue scelte.
Quelli importanti sulla mensola dello specchio, la crema viso la mette dentro un armadietto in un angolo, a quanto pare non è così necessaria. Il rossetto invece è a portata di mano.
Il comodino ritorna affianco al letto, il telefono in carica, il Vangelo e il rosario Annamaria li ripone sopra ad un mobile che ospita già altri oggetti religiosi.
È il suo ordine, nella sua camera.
Ripristinato tutto, ci concediamo un po’ di riposo sedendoci sulle due poltroncine sotto la finestra. Le propongo una videochiamata con la figlia, per annunciarle che tutto è tornato alla normalità. Accetta di buon grado e si gode questo dialogo attraverso uno smartphone che fa sentire mamma e figlia più vicine.
Annamaria è soddisfatta e felice.
Nei suoi occhi è impressa la gioia immensa di respirare di nuovo, aria di casa.
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