Luciana è arrivata alcuni mesi fa nella casa di riposo. In precedenza aveva frequentato un centro diurno e aveva trascorso un certo periodo in un’altra struttura residenziale, dove non si era trovata bene, sicché la figlia aveva optato per riportarsela a casa.
Impresa pressoché impossibile considerato che Luciana è una settantottenne vivace, gioviale, socievole, ma guai a provare a contraddirla. A ogni richiesta formulata in modo brusco o semplicemente con indifferenza, reagisce malamente e se la prende con tutti e tutto ciò che ha intorno. In un’occasione, di cui non è stato possibile comprendere la causa scatenante, a farne le spese è stata Vittoria, la gatta rossa, che ha avuto un bel da fare a divincolarsi e scappare in giardino. A parte questi brevi episodi, che avvengono comunque più volte nell’arco della giornata, Luciana appare entusiasta della vita, corre incontro alle persone, anche quelle che non ha mai conosciuto, chiede un bacio o un abbraccio, si emoziona di fronte al pianto di un bambino o allo scodinzolare di un cane.
Ma chi è Luciana? Mi sono chiesta fin dal primo giorno in cui l’ho incontrata. Cosa nasconde dentro il suo cuore? A colpirmi di più è proprio il contrasto tra una gestualità gioiosa, espressione di affabilità e fiducia e gli improvvisi comportamenti di difesa, con tentativi di aggressività e fuga, scatenati da violenti seppur fugaci attacchi di panico apparentemente immotivati.
La figlia diligentemente mi aveva riferito la storia clinica: quindici anni prima era stata sottoposta alla rimozione endoscopica di un polipo intestinale, risultato essere un carcinoma, per cui aveva eseguito il follow-up per quanto era stato possibile, sempre negativo. Nel 2010 era iniziato un rapido decadimento cognitivo, sicché alla prima visita geriatrica il Mini Mental State Examination era risultato già piuttosto compromesso, 13/30. Era stata posta diagnosi di probabile morbo di Alzheimer, per cui erano stati prescritti i consueti farmaci con scarsissimi risultati, tanto che il controllo del test cognitivo effettuato a pochi mesi di distanza, era risultato ancora più basso, 10/30. Al terzo controllo il test non era più somministrabile e la terapia veniva sospesa.
Luciana, infatti, risponde a qual si voglia domanda esclamando il suo nome e il suo cognome, intercalato alla frase, sempre la stessa, “Ho lavorato tanto”, poi ti chiede chi sei, si avvicina per darti un bacio, sorride e ti abbraccia. Passeggia per la residenza, talvolta tenendo per mano Maria, un’altra ospite, con la quale sembra condividere un sincero affetto, esce in giardino, rientra, si siede, si rialza, sposta gli oggetti da una parte all’altra, non è interessata a nulla, se non alle relazioni tra le persone o gli animali, nel bene e nel male.
Per un motivo o per l’altro, sono passati alcuni mesi prima che riuscissi a concordare un appuntamento con la figlia che mi aiutasse a capire il perché di certi atteggiamenti, ma, alla fine, l’incontro è avvenuto. C’era anche la nipote, una graziosa adolescente e, insieme a Luciana, ci siamo appartati in un angolo tranquillo della residenza, muniti di carta e penna.
Confesso che avevo un certo imbarazzo e non sapevo da che parte cominciare, se compilare prima la scheda narrativa, avvalendomi ovviamente del racconto della figlia oppure provare a somministrare il Test di valutazione dell’Intelligenza emotiva (TIED). Ero preoccupata. Non volevo dare l’impressione di escludere Luciana che continuava a ridacchiare e a pronunciare parole senza senso, dimostrando una certa inquietudine, e neppure apparire inadeguata nei confronti della figlia e della nipote, pretendendo di ottenere risposte a domande di cui, con molta probabilità, non avrebbe compreso il significato.
Optai per il TIED. Mi avvicinai a lei dicendole che m’interessava il suo parere su alcune questioni di vita, presi coraggio e chiesi: "Cosa è più importante per te, la salute o l’amicizia?”
La riposta ci lasciò di stucco: ”Tanti amici io non li voglio. La salute mi piace, si deve mangiare e bere, si deve andare via, camminare, piano piano”.
Le risposte alle domande successive ci fecero strabuzzare gli occhi.
Domanda: “Cosa è più importante per te, la libertà o il denaro?”
Risposta: “Tanti soldi io non li voglio, è così la vita. Abbiamo sempre lavorato. Della libertà direi ... BUUUUUU!!!”, alzandosi di scatto e agitando le braccia in segno di esultanza.
Domanda: “Cosa è più importante per te, la famiglia o la spiritualità?”
Risposta: “La fede in Dio, si deve lavorare, ci si deve comportare bene”.
Domanda: “Sei soddisfatto della tua vita?”
Risposta: “Sì, abbiamo sempre lavorato, non ti ricordi? Viaggi ben poco”
Domanda: “Hai fiducia nelle persone?”
Risposta: “Sììììì ... di tutto e di tutti”
E così via, una dopo l’altra, Luciana dimostrava di comprendere il senso delle mie domande ed era felice di esprimere il suo parere su questioni che la riguardano. Era evidente che i soldi non le interessavano, che di salute ne aveva abbastanza, che non aveva necessità di uscire perché quando si deve lavorare, bisogna stare dove si lavora e basta. Usa il condizionale quando le chiedo se le piace vivere in questo posto, rispondendo con sicurezza e arricciando il mento “Penserei di sì”.
Alla domanda “Come si chiama questo luogo di vita?” torna a parlare di lavoro usando il passato remoto, di una signora brava, proprio brava, di una casa lassù, a San Salvatore.
Mentre la figlia, felicemente sorpresa, annuisce in segno di approvazione e mi dice: “E’ proprio così, ha sempre lavorato, dall’età di otto anni”.
Insomma realizza un punteggio TIED di 20/30 a fronte di un MMSE non somministrabile.
Cognitivamente è molto compromessa, ma con l’intelligenza emotiva se la cava piuttosto bene.
Passai allora alla scheda narrativa, le chiesi il nome di suo padre e la risposta fu Ambrogio, quello della madre, stessa risposta, Ambrogio, mentre la figlia scrollava sommessamente il capo abbassando gli occhi. Era chiaro che la mente di Luciana non era più connessa, vagava chissà in quali reconditi ambiti, ma lei appariva serena e non dimostrava affatto segni di insofferenza.
Seppi che proveniva da una famiglia contadina, residente nella campagna marchigiana; aveva un fratello e due sorelle più giovani, aveva frequentato la scuola elementare per soli tre anni, per aiutare i genitori nel lavoro dei campi fin dalla più tenera età. A 15 anni era stata assunta come operaia in una fabbrica di piastrelle, le piaceva molto, pur essendo un lavoro da catena di montaggio, ma in un’epoca immediatamente successiva il padre con tutta la famiglia al seguito era emigrato in Francia, ad Avignone. Qui si era trovata malissimo ed era costretta a fare un lavoro che non la soddisfaceva: raccogliere le mandorle. Dopo complicate vicende, l’intera famiglia rientrò nel levante ligure, Luciana sposò Elio dal quale ebbe una figlia e continuò a vivere in casa con la suocera con la quale non aveva un buon rapporto. Anzi non aveva alcun rapporto. Marito e suocera le avevano impedito di occuparsi della figlia e l’avevano costretta ad andare a lavorare in una fabbrica di plastica dal mattino alla sera concedendole, oltre il parto, anche i tre mesi legittimi di allattamento al seno. Avrebbe voluto chiamarla Isabella, la sua bambina, ma anche questo le è stato impedito. Monica ha le lacrime agli occhi mentre racconta di non aver mai avuto una madre, anche se riconosce, che la nonna paterna e il padre stesso non le hanno mai fatto mancare nulla, di altro. Non riesce a perdonarla del tutto, comprende che è stata costretta, ma, si chiede ancora oggi, perché non è riuscita a impedire che tutto ciò avvenisse?
Poi aggiunge, mormorando tra sé, quasi per vergogna: “Per me si è rifugiata nella demenza per non sopportare più le imposizioni”.
Annuisco, anch’io con le lacrime agli occhi, mentre Luciana si fa irrequieta e continua a esclamare col fiato corto: “Ambrogio! Ambrogio!”.
Non mi resta che chiedere chi è questo Ambrogio, il padre si chiamava Mario, il fratello Piero, il marito Elio e Ambrogio?
“È il nostro cane” risponde pronta Monica, “a lui sì che è molto affezionata”.
Torna il sorriso nei nostri sguardi e ci congediamo.
Così è la vita, il mio amaro commento. Le storie si dimenticano. Le emozioni restano, eccome.