Fa sempre un certo effetto guardarsi indietro e ripercorrere le tappe delle cosiddette “rivoluzioni di pensiero”, capire che ciò oggi ci appare scontato è in realtà frutto di battaglie, scoperte, approcci innovativi e, alle volte, tempi molto lunghi. Se da un lato rimaniamo quasi scioccati dal bisogno di ufficializzare questioni indiscutibili, ormai capisaldi del vivere civile, dall’altro si apre la speranza di nuova evoluzione, specie dove l’umano pensiero non ha ancora trovato il proprio equilibrio. Tra un secolo qualcuno si volterà e rimarrà altrettanto stupito dell’impegno profuso per trasformare l’intuizione di pochi in certezza quasi banale per molti.
Affermare che il malato è prima di tutto una persona, che ha diritto di dignità e rispetto e che di ciò si deve tener conto, non solo nella comunicazione medico-paziente, ma nell’intera collettività, può sembrare oggi una stonata ridondanza. Eppure ci sono ancora molti casi in cui queste parole non sono solo un fregio di buona condotta ma concetti ancora da spiegare, capire e assimilare. Sono state condotte molte lotte sulla percezione della malattia e del malato stesso, molte sono ancora in corso. Pochi anni fa nominare il cancro o l’AIDS era un tabù, come se il solo parlarne potesse essere in qualche modo contagioso. Abbiamo un naturale istinto di conservazione e quindi di paura verso tutto ciò che è diverso, incompreso, che si può propagare, che ci rende dipendenti, irriconoscibili nel nostro aspetto esteriore e ancor più nelle nostre capacità. Temiamo tutto quello che ci ruba l’identità o che, agli occhi degli altri, può indurre vergogna. La malattia tira fuori quanto di più umano possiamo essere, da un lato il rigetto, il rifiuto, l’allontanamento da sé, la sopravvivenza e l’egoismo; dall’altro il polo opposto della compassione, la presa in carico, la condivisione, l’empatia e l’amore. Il medico sarà eternamente diviso nella dualità tecnica e umana del proprio mestiere. Lo stesso vale per i caregiver, siano essi genitori, figli, infermieri o volontari, divisi tra ciò che è necessario e le sue conseguenze talvolta dolorose.
L’Alzheimer e le demenze in generale sono ancora oggi vittime stigmatizzate e ghettizzate. Dove circola poca informazione si sviluppano tutti i fantasmi delle cose non dette, convinzioni difficili da sradicare, nutrite da silenzi, paure, falsi miti e bugie. Salute e malattia sono ancora viste in senso dicotomico, l’obiettivo per molti rimane la guarigione, una presenza quantitativa e un allungamento delle aspettative di vita, indipendentemente dal prezzo che essa può chiederci in cambio. Le patologie croniche degenerative, specie se intaccano la sfera mentale, sono ancora vissute come una condanna senza speranza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cercato di cambiare le cose spostando il punto di vista e parlando di Benessere, una condizione di vita che esula dai netti confini di salute e malattia. Il Benessere, inteso come Qualità, è qualcosa cui possiamo tendere Tutti, in qualsiasi condizione della nostra esistenza. Viviamo in un sistema così complesso che è difficile stabilire dove inizia la malattia e dove finisce la salute, così come tradizionalmente intese. Stare bene è tutta un’altra cosa e implica una visione globale della persona e della vita, non solo una cartella clinica che attesti l’assenza di disturbo fisici. Affermare che, anche laddove non ci sia speranza di guarigione, sussiste tutto il potenziale del benessere è una vera e propria rivoluzione. Apre i cancelli del ghetto e riversa nuovamente nel mondo milioni di persone.
Sono diverse? Sì, ma credevo lo fossimo tutti.
Sono speciali? Sì e hanno bisogni altrettanto speciali, capaci di aprirci gli occhi sulle nostre relazioni, non solo con le altre persone, ma con tutto ciò che ci circonda.
Come ci dobbiamo comportare? La risposta è una cura gentile.
Il Modello di assistenza protesica GentleCare nasce in Canada negli anni Ottanta per merito di Moyra Jones, fisioterapista specializzata in assistenza sanitaria e gestione aziendale, premiata nel 1987 e nel 1997 per il suo impegno a favore degli anziani affetti da demenza. Il modello è tuttora un importante riferimento nell’approccio professionale alla malattia, medico e di progettazione ambientale. GentleCare non ha come obiettivo la prestazione e l’efficienza, bensì il benessere del malato e di chi gli sta vicino. Ai caregiver si richiedono fantasia, versatilità, rispetto, ottimismo e umorismo. In generale le persone percepiscono un certo grado di indipendenza se si sentono rispettate, se si dà loro la possibilità di scegliere, bisogna perciò rallentare e, prima di fare qualsiasi cosa, chiederne il permesso. Le relazioni sociali vanno stimolate ma mai imposte, assecondando il carattere e le esigenze della persona, la sua momentanea propensione al gruppo o il bisogno di isolarsi. In GentleCare la giornata va riempita di occasioni, valorizzando senza pretese le attività necessarie e significative, i bisogni, le abitudini e i desideri.
Altra rivoluzione: l’ambiente influenza, più o meno consciamente, il nostro umore e comportamento, portando con sé un alto potenziale terapeutico. Ciò apre la strada a una nuova figura di malato e soprattutto un nuovo concetto di cura. Non si parla più di sola medicina, bensì di approccio multidisciplinare che rompe i compartimenti stagni delle diverse figure professionali, indagando la vita nel senso più ampio possibile. Ancora oggi si fa molta fatica a trasmettere questo messaggio. L’ambiente è spesso vissuto più come fatto estetico che come “abito” da cucire su misura. La moda ha soppiantato molti dei pilastri di funzionalità, ergonomia e psicologia che hanno concorso al miglioramento delle condizioni di vita. Il rivoluzionario diventa normale e scontato e a quel punto non ci si pone più il problema.
Immaginiamo di prenotare un albergo e di ritrovarci in una camera completamente dipinta di rosso o di nero. Sicuramente qualcuno potrà apprezzare questa scelta estrema, ma nella maggior parte dei casi proveremmo inquietudine e disagio al limite della paura. Ugualmente fastidioso è un ambiente totalmente bianco, che ci depriva sensorialmente nella sua monotonia e mancanza di stimolazione. Oltre al gusto, ognuno di noi ha determinati precetti rispetto ad ambienti tradizionali e diffusi come ospedali, banche, mercati, uffici postali. Ciò deriva da una visione culturale condivisa e da esperienze personali. Qualsiasi richiamo, anche in luoghi diversi come la propria casa, innesca precisi meccanismi di reazione. L’ospedale è comunemente associato all’idea di sofferenza, dolore e malattia. Vedere in un’abitazione ausili di tipo ospedaliero come un letto metallico ci irrigidisce, così come riconoscere in una Rsa l’impostazione classica del lungo corridoio centrale su cui si aprono le camere. Se vogliamo comprare un vestito, ci porremo in modo molto diverso in una boutique o alla bancarella di un mercato, adeguando all’istante il nostro comportamento. Parliamo con naturalezza di ambiente caldo e familiare piuttosto che freddo e asettico, sensazioni inspiegabili e senza riferimenti riconoscibili, ma perfettamente percepibili e quotidiane.
Un primo riferimento all’utilizzo terapeutico dell’ambiente risale al 1860, negli scritti di Florence Nightingale, infermiera britannica nota come "la signora con la lanterna", considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna. Già all’epoca si osservava la relazione tra la salute dei pazienti e la qualità dell’ambiente di degenza. La Psicologia Ambientale si sviluppa a pieno titolo un secolo più tardi negli Stati Uniti, fondata sul concetto di Qualità come reazione positiva al proprio intorno. Le origini si riconducono al gruppo di ricerca della City University di New York, coordinato nel 1958 da Ittelson e Proshansky, per studiare la relazione tra lo spazio architettonico e il comportamento dei pazienti di un ospedale psichiatrico.
GentleCare trasforma tutto questo nel presupposto che l’ambiente, fisico e sociale, possa essere utilizzato come protesi: sostituzione o completamento delle “parti mancanti” e, più attivamente stimolazione e mantenimento del più alto livello possibile di autonomia e dignità. Si parla perciò di Ambiente Protesico, da semplice custodia passiva a supporto per il lavoro quotidiano di orientamento, riattivazione e recupero. Il modello segue i principi organici del corpo umano secondo cui i sensi cercano di mantenere l’equilibrio, ad esempio compensando la cecità con un udito straordinario e uno spiccato senso del tatto. Allo stesso modo nella demenza il deficit cognitivo è accompagnato da un affinarsi della sfera emotiva e sensoriale. Utilizzato come strumento terapeutico, l’ambiente deve sapersi adattare alle condizioni della persona, intese come fase nell’iter di deterioramento progressivo e umore momentaneo. Conoscere biografia ed abitudini è indispensabile per approcciarsi al paziente in modo flessibile e personalizzato, evitando atteggiamenti che possono richiamare aspetti negativi del suo vissuto. Anche le informazioni apparentemente più banali sono a vantaggio del buon adattamento: gusti alimentari, passatempo, atteggiamenti verso la famiglia, la sanità, la propria casa, il denaro, il lavoro.
L’ambiente di cura deve diventare ambiente di vita, che sfrutta ogni risorsa con fantasia, per fare la differenza e creare la sorpresa nella routine quotidiana, anche di familiari e operatori. L’ambiente deve essere gentile, in un clima di sicurezza, fruibilità, semplicità, comfort, dignità e familiarità. In poche parole…torniamo a casa…