Vorrei cominciare dalla copertina. Come ogni oggetto anche il libro esercita il suo potere seduttivo fin dalla forma e l'immagine con cui si presenta, oltre al contenuto e all'autore, sono elementi che contribuiscono a richiamare il lettore. In "Solo"(Rana Dasgupta, Feltrinelli 2011)(1) colpisce lo sfondo di un bel verde acqua, nitido, abbastanza omogeneo, rasserenante, da cui spicca, al centro, in bianco, una figura di uomo, si presuppone anziano: si appoggia, infatti, a un bastone. Di questo uomo distinguiamo il mezzo busto inferiore e le gambe: la parte superiore invece 'sfuma' e si volatilizza in tanti uccelli in movimento. Titolo e nome dell'autore sono anch'essi bianchi.
Un'immagine semplice ma suggestiva che ben allude al contenuto del testo: un uomo racconta la sua esistenza dalla solitudine di un'età molto avanzata, ma anche sogni desideri speranze che durante la vita non si sono realizzati e che prova a concretizzare attraverso l'immaginazione. E' come se la narrazione materializzasse l'irrealizzato, l'incompiuto, il sognato, e nella sua concretezza visionaria facesse germogliare quelle altre possibili esistenze che per svariati motivi sono rimaste silenti, non si sono sviluppate. Dice verso la fine il protagonista: "C'è sempre un grande surplus che avanza, e dove lo mettiamo se non nei nostri sogni?"
Il protagonista, Ulrich, è cieco, ha quasi 100 anni, vive solo in un modesto appartamento con una pensione che non vale più nulla e necessita della generosità dei vicini: brava gente che ogni mese gli compra generi di prima necessità. La salute è discreta. Ha vissuto in un mondo che non esiste più e "gli sembra di essere il portatore di un'eredità frammentaria e di essere troppo sconquassato per poterla tramandare. Ecco perché sta passando al setaccio la sua vita".
E' un uomo comune, semplice, senza ricchezze né eredi. Di ricordi, sogni, esistenze mancate è fatto il suo patrimonio, solo ricordi e pensieri che, ne è consapevole, un giorno spariranno insieme a lui. Ulrich è figlio di un ingegnere ferroviario molto ben inserito nella società bulgara dei primi del '900, che si sposta con la famiglia e le maestranze cosmopolite per seguire i "binari di quelle piste immaginarie che dovevano unire le genti del mondo". Da bambino Ulrich ha due passioni: il violino e la chimica. La prima è subito tacitata dal padre che non sopporta la musica. Non gli resta che seguire la seconda. Andrà a Berlino per approfondire gli studi, avrà modo di incontrare e farsi suggestionare da scienziati importanti, primo tra tutti Einstein che resterà un riferimento per tutta la sua vita. Ma le vicende storiche si abbattono sulla sua famiglia che cade in disgrazia e gli chiede di tornare a Sofia. Là trascorrerà una vita di basso profilo, umile, malinconica, dove rinuncerà anche a tenersi aggiornato sui progressi della chimica, condizionato dall'ambiente repressivo e inquisitorio che lo circonda. Contribuirà con le sue competenze a far decollare l'industria chimica bulgara ma ne scoprirà a sue spese il prezzo e la corruzione. Dirà: "La Bulgaria era diventata un disastro chimico. I fiumi erano pieni di mercurio e carichi di radioattività". Attraverso le sue vicende si vengono a conoscere quelle del popolo bulgaro, provato dalle ideologie politiche che ne usurpano valori, tradizioni e legami con il passato, siano esse monarchie, socialismi o il più moderno capitalismo. Alla fine a Ulrich, spossessato di tutto, restano quei patetici esperimenti chimici che gli procureranno ustioni e la perdita definitiva della vista. Ma riesce ad adattarsi anche a questo e ne pare quasi "ringiovanito": "alleggerita dalle impressioni sensoriali, la sua mente genera da sé il proprio materiale, e la cosa lo assorbe completamente, riempie le sue giornate".
E' con questo nuovo sguardo che si accorge che la sua vita non è un fallimento come aveva sempre pensato e "non ha più la sensazione di esser stato privato di qualcosa" perché se si entra in comunione con il tutto, si perde l'inizio e la fine dell'individualità e si scopre che "i sogni ad occhi aperti sono una specie di tentativo di vivere e sono ancora a disposizione".
Da questo momento inizia la seconda parte del testo: la vita sognata. Qui i protagonisti sono i figli immaginati di Ulrich che vivono in un contesto post-comunista e globalizzato: Boris, un poverissimo allevatore di maiali che diventa un musicista di fama internazionale, la bella e sensuale Kathuna, che sposa un boss georgiano, ma è costretta a espatriare per l'omicidio del marito, il fragile Irakli, poeta senza fortuna.
Ma queste vite apparentemente di successo, ricche e facili non paiono al lettore molto migliori di quella di Ulrich, anche se questi figli dei sogni fanno cose che Ulrich non ha fatto in cento anni. Dunque una narrazione che copre un arco di tempo lunghissimo e che raccorda eventi legati a due secoli diversi: il XX e il XXI.
Emerge un elemento essenziale nel romanzo: l'importanza dell'immaginazione e della narrazione di storie che permette al protagonista di andare oltre la valutazione del fallimento o del successo della sua e delle altrui vite umane e di sentirsi parte di qualcosa di più grande, "in comunione con il tutto". Quando Ulrich riesce a concentrarsi su questo elemento narrativo, "ad avvertire il grande oceano nero delle cose dimenticate, ignorando il suo inizio e la sua fine, lo solca a vele spiegate. Con il tempo, tutto quello che ha conosciuto è defluito dal mondo reale in questo oceano e l'oblio sconfinato gli dà un senso di beatitudine". Non può non tornare alla memoria il mare delle storie di un altro grande scrittore indiano: Salman Rushdie o la tradizione de "Le mille e una notte". Sono le storie con il loro movimento ciclico di un inizio, uno svolgimento e una fine che portano avanti le esistenze e la vita dell'universo e, come dice P.Coelho (2) "allorché il cuore dell'essere umano comprende un simile meccanismo, può dirsi libero: accetta senza afflizione i periodi difficili e non si lascia trarre in inganno dai momenti di gloria" .
La scrittura è nitida, semplice, procede attraverso i fatti e le azioni, più che l'approfondimento psicologico, come una lunga e frammentata fiaba che ne racchiude altre. Ma rende bene la condizione esistenziale dello straniamento dai valori, dai legami collettivi e fa giustizia dell'importanza della narrazione, delle sue infinite possibilità e del conforto che reca all'intrinseca solitudine dell'essere umano.
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(1) Rana Dasgupta (Canterbury, 1971), scrittore britannico di origini indiane, è cresciuto a Cambridge. Ha lavorato alcuni anni per un’impresa di marketing, prima a Londra, poi a Kuala Lumpur, e infine a New York, periodo durante il quale ha abbozzato il progetto di un ciclo di storie sulle città contemporanee. Nel 2001 si è trasferito a Delhi per dedicarsi interamente alla scrittura.
(2)P.Coelho, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, 2012, p.26