Nella primavera di quest’anno è uscito nelle sale italiane il film Mia madre (Italia 2015) diretto da Nanni Moretti, una storia cinematografica che racconta la dolorosa esperienza di due figli, Margherita (Margherita Buy) e Giovanni (Nanni Moretti), dinanzi alla notizia che la propria madre, Ada (Giulia Lazzarini), sta morendo. La narrazione ha inizio mentre Margherita, una regista affermata, è impegnata a girare un film sui diritti dei lavoratori e la madre è ricoverata in ospedale per degli accertamenti. Di lì a poco la dottoressa che ha in cura la signora Ada informerà i figli che il cuore della loro madre è gravemente affaticato e sta andando verso una direzione dalla quale non c’è modo di tornare indietro.
Da questo momento inizia per Margherita e Giovanni il processo di elaborazione della perdita di una persona cara in un susseguirsi di scene che alternano momenti di vita lavorativa a quelli più intimi e privati, che per lo più si svolgono attorno al letto dell’anziana signora in ospedale.
In questo breve scritto non ci addentreremo nell’esame del modo tramite cui Moretti riesce a mettere in scena tale elaborazione della perdita, per altro molto ben fatta e toccante, ma impiegheremo questa narrazione per riflettere sui cambiamenti che negli ultimi decenni si sono avuti nelle dinamiche relazionali tra medico – paziente – familiare nell’ambito del fine vita, ed in generale della cura, in riferimento al dire la verità al paziente. Vale a dire, all’informare la persona direttamente interessata di quali sono le sue condizioni di salute in modo da metterla nella posizione di poter decidere autonomamente e competentemente come vivere il proprio processo del morire. Il film non affronta in modo esplicito questa tematica, man mano che lo spettatore assiste all’evolversi della storia diventa sempre più evidente come il regista l’abbia voluta lasciare in secondo piano. Allo stesso tempo ritengo che in esso emergano degli elementi utili per aprire un dibattito al riguardo e che, si potrebbe pensare, siano stati inseriti proprio per sollecitare l’attenzione anche in questa direzione. In quanto segue dunque percorrerò questa strada di riflessione offrendo delle considerazioni di arricchimento dell’occhio del regista.
I personaggi che delinea Moretti si muovono all’interno di un modello paternalistico di relazione medico – paziente – familiare in cui non è previsto il dovere di dire la verità al paziente. I medici, nella figura di una dottoressa che compare due volte nell’arco dell’intero film, informano i familiari - i due figli - e non direttamente il paziente. A loro volta i familiari mantengono questo atteggiamento di segretezza e continuano ad averlo anche quando la dottoressa accenna all’ipotesi di considerare se informare la signora Ada, parlarle della reale condizione di salute in cui si trova. Un modello in base al quale il medico ha la competenza tecnica e morale per decidere qual è il bene del paziente e agisce per perseguire un tale bene a prescindere da cosa possa volere il paziente, che a sua volta ha il solo compito di fidarsi ed obbedire, in quanto trovandosi in una condizione di malattia non ha né la competenza tecnica né morale per decidere. L’informazione al paziente non ha alcuna rilevanza. L’etica che informa questo modello di relazione è un’etica medica paternalistica centrata sulla priorità del principio di beneficenza, la quale ha caratterizzato la relazione di cura per circa 2500 anni. Dal giuramento di Ippocrate fino a qualche decennio fa quando nel contesto della malattia si sono affermati nuovi valori, come per esempio quello della libertà personale, che hanno messo in crisi l’etica medica tradizionale e promosso un’etica medica che oltre ad accogliere al proprio interno il principio di beneficenza riconosce anche il principio del rispetto dell’autonomia del paziente, quindi il diritto del paziente a ricevere un’adeguata informazione in modo da potersi autodeterminare nelle scelte che riguardano il proprio corpo e la propria salute. Alla luce degli avanzamenti nella riflessione etica, bioetica e giuridica, si è avuto pertanto un superamento del modello paternalistico.
Perché Moretti sceglie di sviluppare la narrazione facendo riferimento al modello paternalistico, il quale, da quanto appena riportato, appare fuori dal tempo moderno? Una prima risposta potrebbe risiedere nella tesi secondo cui in questo film il regista non è interessato a esaminare i cambiamenti che si sono avuti negli ultimi decenni nell’assistenza sanitaria. Una considerazione supportata dal tipo di storia di fine vita che viene presentata al pubblico, la quale non si caratterizza come un “caso limite/estremo” che suscita reazioni controverse, così come sono state per esempio le vicende che hanno riguardato nel nostro paese Welby e Eluana Englaro. Il regista vuole solo indagare il modo in cui due figli, molto diversi tra loro, affrontano ed elaborano la perdita della propria madre e non esaminare il modo in cui un’anziana signora vive la propria morte alla luce delle trasformazioni che si sono avute nel modo di intendere il ruolo del paziente e i diritti che può avanzare. Una seconda risposta che si potrebbe dare è quella secondo cui Moretti con questo film abbia voluto sottoscrivere il modello paternalista come il più adeguato a cui riferirsi per individuare i comportamenti da avere nelle relazioni di cura. Una risposta, tuttavia, che appare solo a prima vista convincente poiché guardando con attenzione il film si colgono degli elementi nel modo in cui viene presentato il modello paternalistico che fanno propendere per una interpretazione di questa storia di fine vita più come denuncia che come sottoscrizione del modello paternalistico. Nello specifico una denuncia delle ricadute negative che si possono avere su un paziente, in termini di sofferenze non volute, con il continuare a far valere un tale modello nel contesto delle società del XXI secolo, così come in gran parte avviene nella nostra società italiana. Soffermiamoci più nel dettaglio su questa lettura del film che ritengo convincente ricostruendo alcune parti della storia a partire dalla domanda: “Perché i due figli non vedono la questione del dire la verità alla madre?”
Giovanni è completamente immerso in uno schema paternalistico riguardo al modo di considerare sia la relazione medico – paziente sia di conseguenza la relazione familiare – paziente. Questo emerge chiaramente da alcune battute che si hanno in modo particolare in tre momenti dello svolgimento della storia. Un primo momento si ha quando, in una delle scene iniziali del film, la madre Ada si trova in un letto di un ospedale e si lamenta con i figli del fatto che lì dentro “sono tutti troppo intelligenti, ci vorrebbe qualcuno un po’ più scemo per risollevare un po’ il morale, tutti dicono devi fare così e no così e così”. A queste parole Giovanni risponde prontamente e senza lasciar spazio ad alcuna replica “in ospedale così funziona”. Un secondo momento si ha quando la signora Ada dopo esser stata dimessa dall’ospedale deve tornarvi nuovamente. La scena si apre con Giovanni che arriva a casa della madre ed è accolto da Margherita, la quale gli dice che la madre si rifiuta di andare in ospedale. Vediamo allora la signora Ada con indosso un cappotto, seduta sul letto che dice: “non c’è bisogno di andare, non mi va”. Giovanni replica con una risposta secca: “hai parlato anche tu con il dottore, dobbiamo andare e basta” e questa volta la madre aggiunge con espressione rassegnata: “i fucili puntati”. Un terzo momento si ha quando Giovanni e Margherita decidono di riportare definitivamente a casa la madre, dopo che hanno parlato per la seconda volta con la dottoressa ed è emerso chiaramente che si sta avvicinando sempre più alla fase terminale. Entrano nella stanza dell’ospedale e le dicono di prepararsi per tornare a casa. All’ascolto di questa notizia Ada è perplessa: “mi sento stanca, non so se a casa posso fare le cose che faccio qui” e aggiunge: “possiamo aspettare lunedì? C’è un’infermiera molto gentile che vorrei salutare e che ora è in ferie, torna lunedì”. Giovanni risponde: “dai, vestiamoci!” e la madre un po’ sorpresa e confusa: “allora non aspettiamo lunedì?”, di nuovo Giovanni: “no, torniamo a casa”. Come possiamo vedere in Giovanni non c’è alcuno spazio per configurare l’interrogativo se sia meglio informare la madre della sua reale condizione di malattia e confrontarsi con lei su quale possa essere la soluzione migliore da percorrere. All’interno dello schema da cui muove, la voce del paziente non ha alcuna rilevanza per decidere cosa vada fatto per il bene del paziente stesso. Tutto è già stabilito da altri, al paziente è richiesto solo di obbedire. Si noti, inoltre, che un tale schema impedisce a Giovanni non solo di informare la madre per consentirle di decidere autonomamente ma anche di ascoltarla. I desideri e le volontà che esprime Ada cadono nel vuoto, non sono in alcun modo raccolti e accolti da Giovanni che risponde e continua ad agire come se la madre non avesse proferito parola. Agisce per il suo bene, ma nell’individuare quale sia questo bene non si cura di capire il punto di vista della madre al riguardo, nonostante lei cerchi di esprimerlo.
Per quanto riguarda Margherita, sembrerebbe che il suo comportamento sia maggiormente legato ad un atteggiamento di rifiuto ad accettare quanto sta accadendo. Quando la dottoressa li informa che la madre si sta avviando verso una strada di non ritorno reagisce in modo brusco, rimuove la realtà, pensa che la dottoressa abbia comunicato in modo confuso e che comunque la condizione di salute della madre possa avere ancora dei miglioramenti. È spaventata all’idea di perderla. Questo atteggiamento inevitabilmente allontana Margherita dall’interrogativo se dire la verità alla madre. Dal suo punto di vista non c’è nulla da dire, semplicemente perché non c’è nessuna verità da comunicare. Riguardo invece alla dimensione dell’ascolto, nel suo caso sembrerebbe una questione legata al suo modo di essere e relazionarsi con gli altri. Margherita è una persona scontrosa, inquieta, insicura e completamente presa da se stessa tanto da non lasciare spazio per l’ascolto degli altri. Non ascolta i suoi partner, non ascolta le persone che lavorano con lei, non ascolta neppure la figlia. Alle prese con queste personali difficoltà, che si estendono anche alla relazione con la madre morente, Margherita agisce per il bene dell’anziana signora seguendo lo schema del fratello.
E la signora Ada? Cosa dire del suo comportamento? È un’insegnante di latino in pensione, dal carattere vitale, socievole, attento a cogliere le difficoltà o gioie che vivono le persone a lei care – i figli, la nipote, gli ex-studenti. Soffre a stare ferma in un letto di ospedale e ad adeguarsi alle regole di questo ambiente. Quando nelle ultime scene del film la vediamo a casa emerge con vividezza la sua personalità, la quale nelle immagini precedenti era arrivata allo spettatore soffocata dagli schemi dell’ospedale. A casa Ada riguadagna la propria dignità e autonomia. Appare vestita, seduta al tavolo a scrivere la lista e gli orari delle medicine da prendere. La figlia le fa presente che c’è l’infermiera che si curerà di questi aspetti ma lei risponde: “voglio saperlo io”. In un altro momento è seduta in poltrona con il suo vocabolario di latino ad aiutare la nipote con i compiti di scuola e allo stesso tempo a fare lei stessa i suoi compiti a casa: delle aerosol. Anche in questo caso la vediamo gestire in prima persona quanto va fatto per la sua malattia. Ada non appare fragile, anche nella condizione in cui si trova e che man mano le toglie sempre più forze fisiche e intellettive continua ad essere una signora premurosa e attenta a quanto accade alle vite delle persone a lei care, ad essere socievole e voler godere dei piaceri della vita - come desiderare di fare una passeggiata nel viale dell’ospedale - ad esercitare l’insegnamento del latino aiutando la nipote con i compiti, continua a voler essere padrona della propria vita - quando lo può fare - e ad esprimere i propri desideri. Allo stesso tempo però Ada non arriva al punto di contrastare quanto dicono i medici e soprattutto la volontà dei figli. Nonostante attraverso le sue parole ed espressioni del volto si capisca che lei preferirebbe che si facessero scelte diverse riguardo alla gestione della sua malattia non si oppone ma obbedisce. Ada non compie il passaggio dall’essere un paziente inteso come soggetto passivo all’essere un paziente inteso come soggetto attivo che vive la propria malattia in prima persona e non in modo eterodiretto. Questo perché anche lei è completamente immersa in una visione paternalistica delle dinamiche relazionali che si hanno quando si è malati. È dipendente dalla competenza tecnica dei medici e dalla cura dei figli, è un soggetto vulnerabile che ha bisogno di tali competenza e cura e che si fida completamente delle persone che gliele forniscono. Sebbene manifesti delle insofferenze non mette in discussione la capacità che i medici e i figli hanno di giudicare cosa sia meglio per lei in quella situazione, non arriva al punto di trasformare una insofferenza in richiesta esplicita di prendere in considerazione le sue volontà e neppure chiede esplicitamente se stia morendo. Ada si fida, potremmo dire ciecamente, e obbedisce così come richiesto dallo schema paternalista.
Ritengo che sia plausibile sostenere che il modo in cui Moretti delinea il personaggio di Giovanni, così premuroso ma allo stesso tempo caratterizzato da un’estrema durezza e rigidità che fanno apparire con una luce quasi negativa la cura scrupolosa nei confronti della madre, e soprattutto il modo in cui costruisce il personaggio di Ada, una persona dal carattere forte e positivo che tiene molto a vivere in prima persona la propria vita – cioè avendo lei stessa il controllo e la possibilità di scelta su cosa fare – e che in questa fase di malattia manifesta una reale sofferenza nel venire espropriata della libertà di gestire la sua condizione di salute, consentano di interpretare questa storia cinematografica come una denuncia delle ricadute negative che si hanno sul paziente continuando a perseguire in una società molto cambiata rispetto al passato il modello del paternalismo medico nelle relazioni di cura. Una denuncia in modo particolare della nostra società italiana dove di fatto nelle pratiche quotidiane ancora si è molto lontani dal recepire pienamente il processo di trasformazione che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ha interessato l’etica medica e la pratica dell’assistenza sanitaria. Un processo che da una parte ha reso l’etica medica paternalistica non più giustificabile, dall’altra ha portato a riconoscere nel paziente un soggetto adulto capace di decidere sulla scorta dell’informazione che riceve dai medici e sulla base dei propri valori. Per comprendere pienamente quanto sto suggerendo vediamo più da vicino questo processo di trasformazione.
L’etica medica paternalistica era giustificata all’interno di una concezione finalistica della vita umana in cui il criterio per individuare cosa fosse buono o sbagliato fare era dato dall’ordine naturale. Pertanto un criterio etico oggettivo, indipendente dalla volontà delle persone direttamente coinvolte in una determinata azione - siano esse pazienti o medici. All’interno di questo quadro teorico la malattia era considerata un male, perché andava ad alterare i fini della natura, e il medico era ritenuto una persona che, conoscendo un tale ordine, aveva il compito di aiutare questo finalismo rimuovendo o attenuando il disordine in cui versava il corpo del malato. In tal modo il medico realizzava un obiettivo buono prescritto dalla natura, vale a dire la restituzione dell’ordine naturale, ed era dunque giustificato ad imporre tale ordine al malato a prescindere da quale potesse essere la volontà del malato al riguardo. Il paziente era considerato un soggetto passivo nella relazione di cura sia perché non avendo conoscenza dell’ordine della natura era privo della competenza tecnica sia perché trovandosi in una condizione di malattia era incapace moralmente. Dovere del paziente era di affidarsi completamente al medico, come agente tecnicamente esperto e come agente morale, e di obbedire alle sue prescrizioni. All’interno di questo schema il medico non aveva il dovere di informare, anzi era preferibile che non dicesse la verità considerato che un paziente ignaro delle sofferenze a cui sarebbe andato incontro sarebbe stato più sereno e non avrebbe tentato di disobbedire agli ordini del medico o di togliersi la vita, per esempio per debolezza d’animo. Quando necessario il medico informava il familiare che a sua volta si relazionava con la persona cara continuando a mantenerla in una condizione di inconsapevolezza riguardo alla sua reale condizione di salute. L’etica medica paternalistica era centrata sulla priorità del principio di beneficenza, inteso come un principio assoluto e indipendente dai sentimenti e volontà del paziente. Un’etica riconosciuta fino a qualche decennio fa come valida e non percepita come oppressiva della libertà del singolo individuo.
Nella seconda metà del XX secolo la comparsa di fattori esterni a questa prospettiva l’hanno man mano indebolita, resa non più giustificabile, andando ad innescare un processo di revisione dell’etica che informa i comportamenti dei medici, pazienti, familiari nella relazione di cura.
Un fattore decisivo è stato il progressivo aumento delle conoscenze in biologia e medicina che da una parte ha messo in discussione la tesi secondo cui la natura biologica umana tende a dei fini, dall’altra ha reso disponibili innovazioni tecniche per intervenire in vari modi sui processi vitali relativi alla nascita, cura e morte, facendo diventare ciò che prima era demandato alla natura ambito di scelta umana. Si pensi per esempio all’introduzione delle macchine per la dialisi o dei respiratori artificiali: dalla scelta di impiegarli o meno dipende la vita o la morte di una persona; oppure delle tecniche di fecondazione assistita: dalla scelta di ricorrervi in determinati casi dipende la nascita o meno di una bambina o bambino. Con il tramonto del finalismo biologico viene a decadere il criterio etico dell’ordine naturale. Di conseguenza il medico non è più giustificato a decidere quale sia il bene del paziente sulla scorta della conoscenza di un bene oggettivo indicato dalla natura. Sarà il singolo individuo direttamente coinvolto dal processo di malattia a decidere se il trattamento medico disponibile sia per lui o lei un bene in quanto in linea con la sua idea di dignità di vita. Vale a dire, diventa dirimente per l’individuazione di quale sia il bene di un determinato paziente acquisire il punto di vista del paziente stesso su come considera – positivamente o negativamente - gli effetti che una tecnologia o pratica medica avrà sulla sua qualità di vita.
Un altro fattore importante sono state le trasformazioni avvenute nella nostra società nel senso di una progressiva affermazione di principi liberal-democratici in ambiti prima caratterizzati da forme di autoritarismo, paternalismo. Le cittadine e i cittadini delle società occidentali iniziano a rivendicare relazioni democratiche centrate su una parità di diritti tra le persone coinvolte in contesti come la famiglia, l’università ed anche la medicina. Si avvia in tal modo un processo di revisione dei rapporti tra medico e paziente e di conseguenza anche tra paziente e familiare. Una revisione che valorizza l’idea che anche le relazioni di cura sono una parte centrale della vita di una persona e che pertanto il paziente non può essere considerato un soggetto passivo ed eterodiretto, dunque espropriato di un tale pezzo di vita. Ciascuna persona ha diritto di essere trattata “alla pari” nelle relazioni di cura e di viverle decidendo di volta in volta cosa fare in base ai valori che caratterizzano il suo carattere e stile di vita.
Alla luce di questi cambiamenti e di una discussione sia interna alla pratica sanitaria sia pubblica, si è andata delineando un’etica medica che riconosce il principio del rispetto dell’autonomia del paziente e che rivede il principio di beneficienza nella direzione di un bilanciamento da effettuare di volta in volta tra tale principio e quello del rispetto dell’autonomia del paziente: non si può più fare il bene a prescindere da ciò che desidera la persona direttamente interessata. Si ha pertanto un rovesciamento di prospettiva riguardo all’informazione: il dovere di non dire la verità al paziente non è più giustificabile. Affinché il paziente possa autodeterminarsi nel percorso della sua malattia occorre che sia messo nella condizione di farlo informandolo adeguatamente sulle sue reali condizioni di salute e su quali siano i rischi e benefici di sottoporsi ad uno specifico trattamento o protocollo di sperimentazione. Di qui l’introduzione nell’assistenza sanitaria della pratica medica del consenso informato e della esigenza di ripensare la relazione di fiducia tra medico e paziente e tra familiare e paziente nella direzione di una fiducia critica che non si esaurisce nell’azione da parte del paziente di recarsi dal medico – come era nel modello di relazione paternalistico – ma che va rinnovata nelle diverse fasi che caratterizzano il processo di malattia e di cura. Il medico o il familiare, allora, dovranno guadagnare di volta in volta la fiducia del paziente mostrandosi responsabili nei confronti di quanto viene loro affidato con attenzione a non trascurare il punto di vista della persona che si fida.
Sulla scorta di queste considerazioni, da intendere come un arricchimento del punto di vista che propone il film, credo emerga chiaramente la portata della durezza di Giovanni e il suo stridere con la ricchezza della personalità di Ada, una figura soffocata dagli schemi del paternalismo, la quale se fosse stata lasciata libera di percorrere la fase terminale della sua vita secondo lo stile che l’aveva sempre caratterizzata avrebbe certamente portato la narrazione verso altri sviluppi. Moretti non ha percorso questa strada ma allo stesso tempo ci ha fornito elementi sufficienti per aprire il dibattito al riguardo e consentirci di immaginarla a partire dalla rappresentazione di una realtà che ancora molto ci appartiene.