Che cosa ti sei portata a casa dal convegno “ L’assistenza agli anziani. Metodi e strumenti relazionali” (Trento, 23 e 24 settembre 2016 – Centro studi Erickson)?
Una domanda semplice, alla quale vorrei dare una risposta altrettanto semplice e diretta. Una buona domanda, che può aiutarci a estrarre un nucleo di idee vive e fertili da quanto vissuto o ascoltato. In qualche modo è la stessa domanda che ha guidato gli interventi conclusivi di ogni giornata di convegno, affidati a Nicoletta Pavesi (Università Cattolica di Milano) e a Mariarosa Dossi (APSP Grazioli di Trento) e per i quali era prevista la presenza di Silvana Botassis (Associazione Al Confine, Milano), che ha dovuto rinunciare a esserci e mi ha chiesto di sostituirla. Dunque eccomi, per provare a raccontare queste mie due giornate.
La prima mattina arrivo con qualche minuto di ritardo, la plenaria è appena iniziata. Dal fondo della platea guardo la sala piena e ho un’impressione di energia, di partecipazione: sento che c’è una grande ricchezza di esperienze, una motivazione forte ad apprendere e a condividere.
Questa emozione iniziale è poi confermata dalla discussione nei workshop, dalle chiacchiere informali, dallo scambio di informazioni e di contatti. Sono in mezzo a tante persone curiose, coinvolte, appassionate del proprio lavoro: c’è dunque una base comune, largamente positiva. Ecco, questa è la prima cosa che registro e che conservo con cura, possibile antidoto alle ricorrenti crisi di sfiducia e ai momenti di smarrimento.
Un secondo elemento di forza viene dai contenuti delle relazioni: mi sono sentita molto sostenuta e incoraggiata dalla relazione di Maria Luisa Raineri sulla logica relazionale nell’assistenza, per quello che ha detto e più ancora per il modo con il quale si è espressa.
Autosufficienza e non autosufficienza sono il risultato di relazioni, nessuno è autosufficiente da solo, nessuna sa con certezza che cosa sia il bene per l’altro. Ritrovo qui l’idea di fragilità come possibilità di una vita condivisa incontrata negli scritti di Benasayag e uno stimolo ad un processo diagnostico che sia ricerca e comprensione dell’altro e non apposizione di un’etichetta che - classificando - pretenda di esaurire ogni complessità. Trascrivo le frasi finali della relazione, che davvero mi sembra offrano una guida e un sostegno.
“L’assistenza è relazionale se non siamo noi professionisti, unilateralmente, né a definire quale sia il benessere per una persona e per chi le sta vicino, né a dire come fare per realizzarlo. L’assistenza è relazionale se sappiamo farci aiutare dai nostri utenti e dai loro caregiver ad aiutarli nel modo che loro trovano più utile per se stessi.
Detto diversamente, per lavorare con la non-autosufficienza dobbiamo forse partire dall’idea che noi stessi per primi non siamo autosufficienti come professionisti. Il benessere possibile dipende sempre da più persone in relazione e quindi saremo operatori tanto più efficaci quanto più sapremo farci aiutare dai nostri utenti, dai loro familiari, dai loro amici, dai volontari e via dicendo. Credo sia questo il criterio di base con cui orientarsi tra le svariate proposte assistenziali a cui, fortunatamente, ci troviamo di fronte sempre di più”.
Senza enfasi e senza presunzione, ci è stato mostrato come queste affermazioni teoriche comportino una radicale messa in discussione del nostro normale modo di operare.
Personalmente ne ho tratto anche un desiderio di maggior umiltà, se è lecito usare questa parola. Intendo dire che la concreta quotidiana messa in opera di pratiche professionali e private coerenti è un difficile impegno, che mi pare possa essere meglio assolto se accettiamo i limiti sostanziali di ogni azione, lavorando con determinazione nel qui ed ora della nostra specifica situazione e insieme riconoscendo e valorizzando professionalità diverse e ambiti di ricerca diversi. Mi pare che la relazione che ho citato non solo proponga dei contenuti importanti per orientare l’assistenza ma contenga in definitiva un forte richiamo alla necessità che il lavoro abbia una propria intrinseca qualità, fatta di rigore, di coerenza, di adesione alla realtà, di rinuncia alla difesa preventiva e pregiudiziale del proprio territorio, professionale o metodologico.
A fronte di questi elementi positivi c’è a mio parere una riflessione da fare.
La forza espressa da persone e idee, ripetuta in mille occasioni, convegni, articoli ecc. coesiste con la constatazione di quanto sia carente e anche, talora, distorto il sistema complessivo di assistenza che siamo riusciti a costruire. Dove sta il punto di frattura? quale barriera impedisce a tante buone volontà e innovative teorie di trasformare efficacemente l’esperienza diretta dei malati o degli anziani?
Non ho risposte convincenti, anche se credo che la domanda abbia senso. É solo una questione di tempo, del tempo necessario ad ogni cambiamento? O invece esistono e si possono identificare dei punti di resistenza precisi o degli interessi specifici, conflittuali e paralizzanti? A quale livello eventualmente si collocano? Al livello degli operatori, dei dirigenti, dei decisori politici, dei processi economici, della cultura diffusa?
Nel numero di settembre di Per lunga vita Lidia Goldoni poneva delle domande diverse nella forma, ma molto simili nella sostanza e parlava di uno sciame di dati e azioni che nessuno traduce in un programma condiviso, con le necessarie risorse. Da Trento mi porto via la rinnovata convinzione che singole buone esperienze sono importanti, ma che altrettanto importante è il raccordo tra queste e la normalità della vita di tutti.
Ho avuto una conferma di questo punto di vista da uno dei workshop a cui ho partecipato, dedicato alla bientraitance. Una ricerca ampia e documentata, condotta in Canton Ticino e presentata da Luisa Lomazzi, Rita Pezzati e Carla Sargenti ha sottolineato come sia diffusa e pericolosa la maltraitance ordinaire, cioè quei comportamenti minuti, ripetuti, quotidiani, che esprimono un potere asimmetrico e un disconoscimento profondo della persona: essi non si configurano come episodi acuti di violenza, vengono di fatto misconosciuti divenendo parte di una routine sulla quale nessuno più riflette, talvolta anche vengono considerati esplicitamente come buone pratiche.
Tendo a pensare che questi comportamenti, analoghi a quelli descritti come psicologia sociale maligna da Kitwood, siano strettamente connessi al permanere nei servizi e ancora più nelle strutture residenziali di un carattere istituzionale, nel senso proprio dell’istituzione totale, nonostante l’indubbio diffuso miglioramento dell’ambiente e dell’offerta di prestazioni sanitarie e assistenziali. Ho trovato quindi molto importante che si sia voluto spostare l’attenzione da singoli episodi di maltrattamento, di cui è facile scandalizzarsi, alla base nascosta di abitudini e regole spesso implicite che veicolano nel quotidiano una cultura oppressiva e svalutante, in modo più o meno consapevole.
Torniamo dunque al tema della normalità, un’altra delle parole chiave della mia riflessione anche nelle giornate del convegno.
Si presentano due esigenze: da un lato desideriamo mettere in atto pratiche di cura quanto più possibile documentate, espressione di conoscenze necessariamente specialistiche, secondo protocolli espliciti e ripetibili, in setting ben definiti, d’altra parte sentiamo che la vita, vecchiaia e malattie comprese, potrà essere accettabilmente felice solo se l’insieme delle relazioni sociali sarà orientato a questo e quindi, verosimilmente, profondamente mutato rispetto all’esistente. La salute come risultato atteso di specifiche terapie e lo stare bene come essere a proprio agio in un contesto relazionale adeguato: due campi distinti, che però si intersecano o sovrappongono, senza limiti netti.
Nella mia esperienza questo è un tema aperto, sul quale discutiamo molto all’interno delle associazioni e anche a livello del tavolo Alzheimer (a Milano) e le incertezze linguistiche sui nomi (terapie o interventi, non farmacologici o psicosociali) riflettono reali incertezze sulle cose.
Possiamo apprezzare il rigore necessario per codificare un’attività e valutarne i risultati e nello stesso tempo non accettare di ridurre tutto a terapia, cioè ad intervento finalizzato e in definitiva deciso e diretto non dal soggetto interessato ma da altri, considerati esperti? Penso di sì.
Abbiamo grande bisogno di terapie (o prevenzione) efficaci, con o senza farmaci, ma prima ancora abbiamo bisogno di essere persone con normali diritti. Mi piace pensare che le persone - anche quelle con deficit e disturbi - dovrebbero poter andare in un museo, disegnare, godere della compagnia di un animale, sperimentare un viaggio o fare musica perché lo desiderano, perché ne traggono piacere e benessere, come vorrebbe fare chiunque di noi. Per vivere queste esperienze non dovrebbe esserci bisogno di definire uno spazio e un tempo separati, etichettati come terapeutici.
Dentro questa cornice si colloca la scelta che abbiamo fatto come associazione Al Confine per i nostri Alzheimer café, la scelta cioè di mescolare, di far convivere nei nostri gruppi persone con situazioni molto diverse, costruendo relazioni di reciproco aiuto. Nella stessa linea è stato pensato anche il nostro ultimo video Il nastro rosso, del quale a Trento abbiamo presentato un frammento nel workshop sull’Alzheimer café. Si tratta di un breve racconto che ha per protagoniste tre persone che partecipano ai gruppi: persone malate, ma anche a pieno titolo persone normali, con una storia, un ambente di vita, un patrimonio di ricordi, una rete attuale di relazioni.
Certe volte infine mi sembra che invece di aggiungere continuamente servizi, sigle, progetti, competenze specialistiche, dovremmo togliere, semplificare: puntare di più sul cambiamento della cultura, mettendo in gioco le nostre idee di norma, malattia e vecchiaia, autosufficienza.
Sono così tornata al punto di partenza. Più o meno questo è stato il mio percorso nelle giornate di Trento. Sono contenta di esserci stata e anche di aver avuto ora l’occasione di ripensarci. Restano contatti, l’apertura verso esperienze nuove, l’impegno propriamente politico a misurarsi con le cause dei problemi. Sono aperte molte domande, che a me paiono altrettante possibili tracce di ricerca e di lavoro.